Auschwitz, Giornata della Memoria

Giornata della Memoria, il ricordo è in scadenza?

Oggi, 27 gennaio, è la Giornata della Memoria. Da qualche giorno alcuni canali televisivi mandano in onda in seconda serata documentari di approfondimento e tributi vari. Lodevole, ma domani? I palinsesti televisivi torneranno pieni di scintillanti talk show, presi d’assalto da soubrette in crisi e da politici sbruffoni. Oggi la Shoah e le belle parole, domani La pupa e il secchione e le scritte antisemite sui muri.

Paradossale, forse, ma reale.

Liliana Segre, la Giornata della Memoria tra indifferenza e ipocrisia

Liliana Segre è probabilmente la testimone della Shoah più conosciuta in Italia in questo momento. Senatrice a vita dal 2018 (qui la sua storia), ha recentemente promosso una proposta di legge (approvata ma con l’astensione del centrodestra) per l’istituzione di una commissione parlamentare contro il razzismo. Per lei, internata ad Auschwitz a 14 anni, il cancro più grave è l’indifferenza: quella di chi si è voltato dall’altra parte, quando i fascisti hanno iniziato a rastrellare gli ebrei, e di chi oggi ascolta i pochi testimoni rimasti con aria annoiata, come se si trattasse dell’ennesima riproposizione di una vicenda già archiviata. Come si potrebbe ascoltare, insomma, una lezioncina sugli antichi Romani. Storia vecchia, trita e ritrita, passata.

L’indifferente è complice. Complice dei misfatti peggiori

(contributo di Liliana Segre per lo Zingarelli 2020)

Dalla Shoah, però, sono trascorsi meno di 80 anni. Un tempo minimo, se si considerano i duemila che separano il giorno corrente dalla nascita di Cristo, ma sufficiente per creare una frattura tra passato e presente. Vittime e carnefici stanno lentamente scomparendo e presto di loro rimarrà solo una memoria libresca. Niente più voci e volti a testimoniare l’orrore, ma solo parole scritte e qualche registrazione. Una memoria preziosissima, ma certo sempre più debole: di un libro non vedi il tatuaggio marchiato sul braccio né senti la voce che si spezza.

E se il legame con il passato si affievolisce, non basta una conferenza o un discorso di circostanza per risvegliare le coscienze.

Ogni anno, con la dolente routine ipocrita di chi concepisce il Giorno della Memoria come una data rituale, si chiama il sopravvissuto di turno a raccontare l’orrore alle scolaresche, si riproietta Schindler’s List o perfino La vita è bella, e la coscienza civile pare salva. Lo è davvero? No di certo.

(Le memoria rende liberi, Liliana Segre con Enrico Mentana, best BUR)

Antisemitismo del nuovo millennio

Appena qualche giorno fa a Mondovì (Cuneo) qualcuno ha imbrattato la casa di una donna sopravvissuta ai campi di concentramento con una scritta antisemita . «Juden hier», ovvero “qui abitano degli ebrei”, come se questa non fosse l’Italia del 2020 ma la Germania del 1935, dove marchiare le abitazioni degli ebrei era, purtroppo, normale. Una macchina del tempo davvero agghiacciante

E che l’antisemitismo non sia una malattia del passato lo confermano i dati dell’Osservatorio antisemitismo: 197 aggressioni razziali in Italia nel 2018. In Francia e in Germania va pure peggio e il ministro degli Esteri tedesco, in una dichiarazione rilasciata al Der Spiegel, ha ammesso che nel suo Paese c’è un antisemitismo risorgente.

S.B.

Muro di Berlino

Muro di Berlino, il crollo di un mostro

Crollava oggi, 9 novembre, il muro di Berlino. Era il 1989 e la Germania come la conosciamo adesso non esisteva. C’era la Germania ovest (Repubblica Federale di Germania) e c’era la Germania est (Repubblica Democratica Tedesca). In mezzo, un muro.

Ezio Mauro, ex direttore di la Repubblica,è tornato indietro nel tempo e ha raccontato in tv e sulla carta quella divisione innaturale. Anime perdute: Cronache dal Muro di Berlino è il suo libro.

2 maggio 1945. Gli antefatti

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale la Germania sconfitta finì divisa in 4 settori controllati dai vincitori (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia). Negli anni successivi, però, i 4 settori di fatto si polarizzarono in due aree, un’area occidentale che rispondeva agli Stati Uniti e un’area orientale che rientrava nella compagine sovietica. La contrapposizione ideologica iniziava già qui, ma ci vollero 16 anni perché il confine diventasse un muro.

13 agosto 1961. Tutto in una notte

A decidere la costruzione del muro fu una telefonata tra il capo della Germania est e Kruscev, leader dell’Unione Sovietica. A Berlino mancavano il latte e il burro, non c’erano più verdure se non crauti e cetriolini sottolio, gli stipendi erano bloccati… La Germania est era al collasso, così Kruscev decise di blindarla. In cinque ore, di notte e in completa segretezza, fece costruire un primo confine di filo spinato. Nei giorni successivi lo scavalcarono circa 200 persone che avevano capito che non sarebbe stata una soluzione temporanea. Molti altri credettero invece che sarebbe stata una cosa passeggera, questione di settimane o al massimo mesi. E invece sono stati 28 anni.

L’improvviso innalzamento della barriera colse di sorpresa l’Occidente, che restò a guardare ammutolito. La sola voce di condanna, infatti, fu quella del sindaco di Berlino ovest.

1961-1989, 30 anni di Muro di Berlino

Il Muro era lungo 155 km, di cui 43 km che spaccavano in due Berlino. La separazione era totale e non teneva conto di niente e di nessuno: Rainer Eppelmann, oggi pastore protestante della chiesa dei samaritani, si ritrovò nella zona est insieme alla madre e ai fratelli, senza poter raggiungere il padre nella zona ovest. Lo stesso accadde a molte altre famiglie.

Scappare da est a ovest, dove la vita era economicamente (e non solo) migliore, era infinitamente complicato. Nei primi tempi alcune persone si gettarono dalle finestre delle case adiacenti al muro; qualcuno riuscì nell’impresa, altri morirono nella caduta. Successivamente le finestre furono murate, come anche le fermate della metropolitana della zona est.

Il Muro fu poi rinforzato e nella sua ultima versione si componeva di due barriere di cemento armato alte 3,60 metri, con più di 300 torrette di controllo e una zona cuscinetto detta “la striscia della morte” sorvegliata da oltre 5mila cani. Un mostro. Se anche i più abili (o fortunati) riuscivano a superare il primo muro, si trovavano intrappolati nella striscia della morte ed erano facilmente catturati o uccisi. In più, ovunque si allungavano i tentacoli della Stasi (Ministero per la Sicurezza di Stato) che attraverso le sue spie arrestava tutti i (possibili) dissidenti.

Chi rimase bloccato nella zona est, insomma, passò dalla dittatura nazista a quella comunista. Quasi come cadere dalla padella alla brace.

9 novembre 1989, il crollo del Muro di Berlino

Nemmeno un anno prima del crollo, nel gennaio del 1989, il presidente della Germania est Erich Honecker garantiva la durata del muro: Il Muro continuerà ad esistere tra 50 anni e anche 100 anni se le ragioni per cui è stato costruito non saranno rimosse. Invece a novembre dello stesso anno il muro crollò e con lui il comunismo sovietico.

Nel marzo del 1989 l’ultima “vittima del Muro”: un ventiseienne costruì una mongolfiera per raggiungere Berlino ovest, ma si schiantò al suolo. Dopo di lui ci furono solo proteste e persone che occuparono per giorni le ambasciate della Germania ovest. I manifestanti furono infine evacuati nell’ovest su treni speciali (i “treni della libertà“), formalmente “espulsi” dall’Unione Sovietica.

Arrivò così la sera del 9 novembre. Una conferenza stampa annunciò l’apertura dei checkpoint tra Berlino est e Berlino ovest. Un giornalista chiese da quando sarebbe entrato in vigore il provvedimento, la risposta fu a quanto ne so, da subito.

Il Muro di Berlino 30 anni dopo

Con il Muro di Berlino non sono certo crollati tutti i muri fisici o mentali del mondo. Altri sono sopravvissuti o sono stati eretti.

Ma qual è la vera funzione di un muro? Alessandro Baricco scriveva nel 2006, a proposito della Grande Muraglia cinese, che essa era uno strumento militare inefficiente (i popoli della steppa la violavano di continuo), ma un meccanismo mentale infallibile. Infatti, un muro compatta l’identità di quelli che sono dentro creando un’opposizione con quelli fuori. Un muro è sempre un “noi contro loro”. Capitalisti contro comunisti, nel caso del Muro di Berlino. Statunitensi contro Messicani, per il muro voluto dal presidente Donald Trump. Muro che, tra l’altro, funziona esattamente come la Muraglia analizzata da Baricco: militarmente fa acqua da tutte le parti (recentemente alcuni narcos l’hanno assaltato con delle seghe elettriche) ma concettualmente è un confine perfetto che dice (o vorrebbe dire) “America first“.

Poi c’è il muro di Viktor Orban, che blocca la via balcanica impedendo ai migranti di raggiungere l’Ungheria. Così il muro passa da simbolo della Guerra Fredda a bandiera dei nuovi sovranismi. Se l’Italia non fosse circondata per tre lati su quattro dal mare, chissà, forse ormai avremmo anche noi il nostro muro da aggiungere ai 40mila km di barriere che, secondo una ricerca di Elisabeth Vallet (Università di Montreal) riportata da TPI, ci sono ad oggi nel mondo.

S.B.

Liliana Segre con il padre Alberto

Liliana Segre, le dieci parole di Auschwitz

Liliana Segre è sopravvissuta ad Auschwitz. Ha da poco compiuto 89 anni e potrebbe presto ricevere un dottorato honoris causa, ma per altri, milioni di altri, il tempo si è fermato più di 70 anni fa. Liliana è sopravvissuta per caso, dice lei nel suo libro La memoria rende liberi, scritto con Enrico Mentana. Ce l’ha fatta così, andando avanti senza pensare all’orrore che la circondava.

Liliana Segre e la sua famiglia

Liliana è una bambina come tante. È ebrea, ma questo per lei vuol dire solo saltare l’ora di religione a scuola. Tutto cambia nell’estate del 1938, quando le leggi razziali le impediscono di tornare a scuola e tolgono alla sua famiglia, una normalissima famiglia borghese di Milano, la tranquillità di cui godeva.

La deportazione

È il 1943 quando Liliana e Alberto vengono arrestati. Hanno tentato di scappare in Svizzera, ma la fuga è andata male. Per loro si aprono i cancelli del campo di concentramento, Auschwitz (Polonia), con il suo motto paradossale (“Il lavoro rende liberi”). Liliana si trova davanti un orrore inimmaginabile: cumuli di cadaveri, esperimenti su esseri umani, infezioni e malattie, violenze continue. Per sopravvivere, sceglie di guardare senza vedere, andare avanti a testa bassa, non pensare.

Le dieci parole di Auschwitz

Il personale vocabolario tedesco di Liliana, al campo di concentramento, includeva soltanto dieci parole. Solo dieci parole per descrivere una quotidianità di terrore e sofferenza, scandita dal lavoro usurante e dall’unico ristoro di pasti al limite del commestibile:

  1. weinen-piangere
  2. angst-paura
  3. schlag-schiaffo
  4. schnee-neve
  5. hunger-fame
  6. brot-pane
  7. schmertz-dolore
  8. los!-avanti!
  9. allein-sola
  10. funfundsiebzig einhundertneunzig-75.190 (il numero che Liliana ha tatuato sul braccio)

Liliana Segre dopo Auschwitz

Liliana è tornata, ma suo padre Alberto e i suoi nonni no. Della sua famiglia si sono salvati solo gli zii, rimasti nascosti in montagna, ma anche con loro per lei non c’è più normalità. Serviranno decenni perché il trauma del campo di concentramento sia metabolizzato.

Liliana Segre è sopravvissuta ad Auschwitz, ma il suo numero, quello che per un anno e mezzo ha cancellato la sua identità (e umanità), è ancora lì, a mo’di monito contro ogni forma di discriminazione e di odio.

(Enrico Mentana & Liliana Segre, La memoria rende liberi, BUR, 2018)

S.B.