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Femminicidio di Giovanna Cantarero: il delitto nei titoli dei giornali

Il femminicidio di Giovanna Cantarero si è consumato qualche giorno fa a Misterbianco (Catania). Ad uccidere la donna, di 27 anni, è stato un uomo che le ha sparato dopo averla avvicinata chiamandola con il suo nomignolo:”Jenny“. Questo dettaglio ha conquistato le prime pagine di giornali e telegiornali, al punto che, quando ho aperto Google per cercare qualche articolo, mi sono accorta di non sapere il nome completo della ragazza.

La donna si chiamava Giovanna Cantarero, ma il suo caso ormai è “l’omicidio di Jenny”. Così ho dato a Google questa chiave di ricerca e ho deciso di fare un esperimento: farmi un’idea del delitto leggendo solo i titoli dei primi pezzi che l’algoritmo di proponeva. Non è un buon metodo per capire le cose, ma molte persone “si informano” proprio così, leggendo titoli e spezzoni di articoli.

Giovane, mamma, siciliana

Se dovessi dire chi era Giovanna – anzi, Jenny – basandomi sui titoli che Google mi ha proposto (vedi la gallery sotto), direi che era una donna giovane, a giudicare dalla sua foto, madre di almeno un bambino e di Misterbianco. Altro non posso sapere. Niente sulla sua età precisa né sul suo lavoro. Anzi, se leggessi solo l’anteprima di Live Sicilia saprei ancora di meno: “Catania, città scossa per l’omicidio della giovane mamma”.

Insomma, alla domanda “Chi era Jenny?”, gli articoli che Google mi ha dato in sorte rispondono “una mamma“. Quello che riguarda lei come donna e individuo (il suo lavoro e le sue passioni) passa in secondo piano. Devo aprire gli articoli (sì, non ho resistito e alla fine ho letto più del titolo) per scoprire che lavorava in un panificio.

Perché questa scelta di distribuzione delle informazioni? Non si poteva scrivere “giovane uccisa fuori dal panificio dove lavorava?“. Certo che si poteva e altri siti hanno fatto titoli più o meno così. Il fatto è che il titolo dovrebbe essere breve e accattivante, quindi bisogna fare una selezione: ci interessa di più che Giovanna fosse mamma o panettiera? (POV: sono un titolista) “Mamma, ovviamente!”. Il motivo è duplice:

  1. Persiste la brutta abitudine di dare per scontato che, se una donna è madre, la maternità debba essere il suo tutto e la sua prima caratteristica
  2. Se muore una donna che lascia figli piccoli, l‘indignazione dell’opinione pubblica è garantita. Meglio quindi scriverlo subito, nel titolo, che era mamma: sono click assicurati. E se poi le battute sono finite, pazienza: si può sempre sopprimere il cognome, l’età o il mestiere.

Giovanna e quella “relazione burrascosa”…

Questo è un grande classico del racconto dei femminicidi. Come tutti i delitti, anche un femminicidio ha bisogno di un movente.

In realtà, il movente sarebbe implicito e risiederebbe nel desiderio dell’uomo di controllare la donna, di esercitare potere su di lei. Quando la donna si sottrae al dominio maschile, lasciando l’uomo o allontanandosi, scatta l’assassinio.

Non proprio una questione di cuore, dunque. La famosa “relazione burrascosa“, di per sé, non uccide, ma è una spiegazione sufficientemente semplice e “romantica“. Per questo piace un po’a tutti, a volte anche a chi si occupa del caso. La foto sotto, ad esempio, proviene dall’edizione delle 13 del TG5 di domenica 12 dicembre 2021. “Relazione burrascosa” è virgolettato perché chi ha fatto il servizio ha messo le mani avanti: lo ha detto la polizia!

Il femminicidio di Giovanna Cantavamo nei titoli di apertura del TG5 (12/12/21, ed.delle 13)

Nelle grinfie di un “mostro”

Forse qualcuno avrà notato che due dei sei titoli che ho screenshottato per il mio esperimento sono di Fanpage. Evidentemente l’algoritmo di Google crede che questa testata possa essere di mio gradimento, ma non è questo il punto. Uno dei due articoli di Fanpage riportava nel titolo una dichiarazione del sindaco di Misterbianco che si augurava che il “mostro” fosse presto catturato.

Il “mostro” non è stato catturato, ma è stato trovato senza vita (suicida, secondo la polizia), ed era Antonino Sciuto, ex fidanzato della vittima. Ma chiamarlo “mostro” non è il massimo; sarebbe meglio definirlo semplicemente “assassino“?

Definendolo mostro, infatti, si passa un messaggio del tipo: “è un decerebrato, un pazzo, un individuo crudele e pericoloso”. Non un uomo qualunque, quindi. E se è uno anormale, anche le sue azioni sono fuori dal comune (per una spiegazione più approfondita, formale e autorevole: Mia Consalvo, The Monster next door). Ed ecco l’errore: i responsabili della maggior parte dei femminicidi sono uomini qualunque, figli di una società che ha abolito il delitto d’onore solo quarant’anni fa. Si potrebbe riassumere con uno slogan di Non Una Di Meno, che mi è capitato di vedere in giro sui social: “L’assassino non è un malato ma un figlio sano del patriarcato”.

Conclusione: il mio titolo preferito

Dopo tutta questa tiritera che sicuramente avrà fatto arricciare il naso a qualcuno (mi immagino certe smorfie su quella parolaccia, “patriarcato“) e addormentare molti altri, tiriamo le somme.

Se dovessi decidere io, scriverei il titolo del Quotidiano Nazionale (infatti gliene ho scopiazzata una parte). “Catania, femminicidio di Giovanna Cantararo: trovato morto il presunto omicida“. Riconosce che il delitto è un femminicidio è non un comune omicidio e assegna i giusti ruoli. Cita la vittima con nome e cognome, dandole dignità e autorevolezza, anziché cedere alla tentazione di drammatizzare e romanticizzare con il nomignolo. Introduce l’uomo per quello che è al momento, un “presunto omicida“, né mostro né altro (la perla che ci fa sapere solo che non è il padre della bambina – e allora chi è? – mi lascia perplessa). Titolo promosso. Per gli altri, sospensione del giudizio.

ragazza di spalle

Silvia e Ciro Grillo, qual è la vittima perfetta per uno stupro?

Continua a tenere banco il caso di Silvia e Ciro Grillo, figlio del comico Beppe Grillo. Il ragazzo è accusato di stupro di gruppo insieme a tre amici, ma nega che ci sia stata violenza. Per lui, come per gli altri, la ragazza, Silvia, era consenziente. Lo stesso sostiene Beppe Grillo, che ha difeso il figlio in un video (analizzato qui) che ha scatenato numerose polemiche. La guerra sul consenso di Silvia nasce dal fatto che lei non è la vittima perfetta per uno stupro. Non risponde ai miopi criteri con cui la nostra società decide se è verosimile o meno che una donna abbia subito una violenza sessuale.

1)Silvia non ha urlato né pianto

Resiste ancora l’idea che una donna che non urla, o non piange disperatamente, in fondo sia consenziente. Una sorta di agghiacciante distorsione del detto “chi tace acconsente“. E tra Silvia e Ciro Grillo non c’è stata lotta, anzi, un filmato mostrerebbe la ragazza ridere insieme al gruppo.

2)Il giorno dopo non era diversa

In questo caso la credenza popolare è che uno stupro deve lasciare la vittima evidentemente devastata. Si cerca una prova visibile di ciò che è accaduto: lividi, graffi, o almeno un viso più triste del solito. Se invece tutto sembra perfettamente normale, ecco che arrivano i dubbi.

Silvia dopo la notte passata nella villa di Grillo è andata a fare kite surf. Un normalità apparentemente perfetta che ha alimentato molte insinuazioni sulla sua sincerità. Solo negli ultimi giorni è saltata fuori la testimonianza di un dipendente del B&B dove la ragazza alloggiava: secondo lui, la mattina dopo lei non era la stessa. Adesso, con uno sguardo maschile che certifica che c’era qualcosa di diverso, cambia tutto. Ora sì che possiamo crederle.

In realtà, però, sono moltissime le donne che il giorno dopo una violenza sessuale hanno continuato la loro vita di sempre. Alcune delle loro storie, raccolte dall’hashtag #ilgiornodopo, raccontano di ragazze che sono andate a fare shopping, al cinema, a scuola, a lavoro. Come al solito.

3)Non sembra una “brava ragazza”

Silvia e Ciro Grillo si conoscevano da poche ore quando lei ha accettato di andare a casa sua. Pare che avessero bevuto in discoteca, e poi che abbiano bevuto di nuovo dopo. Ma in Italia (e forse non solo) la vittima perfetta è la “brava ragazza“. Questo concetto, o meglio questa gabbia di cui ancora non ci siamo liberate, crea un ideale di ragazza seria, sempre responsabile (anche se ha sì e no vent’anni), che non beve, non assume droghe, non si mette in situazioni pericolose, non va a casa di quattro semisconosciuti. Ed ecco infatti che Beppe Grillo avrebbe commissionato un’indagine privata su Silvia, la sua personalità e gli effetti dell’alcol su di lei. Perché se lei fosse una “cattiva ragazza”, una che frequenta molti uomini e perde facilmente il controllo, sarebbe molto più facile spostare l’immaginario da uno stupro di gruppo a una banale serata di eccessi.

S.B.

Leggi anche: Ciro Grillo e Alberto Genovese – Due accusati fuori dal comune (Giovani Reporter)

Beppe Grillo

Ciro Grillo, il video che offende tutte le donne

Ciro Grillo, figlio del comico Beppe Grillo, è stato rinviato a giudizio per stupro di gruppo. Babbo Beppe, allora, ha pensato di difendere il figliolo a modo suo. Come? Con un video in cui urla molto e mortifica, in nemmeno due minuti, tutte le donne che hanno subito una violenza sessuale.

Sui fatti, che risalgono all’estate del 2019, sarà la giustizia a fare luce. La procura di Tempio Pausania, in Sardegna, dove il gruppo si trovava in vacanza, sta indagando. Non sta a noi, blogger e popolo del web, dire se Ciro Grillo sia uno stupratore o un “coglione” (cit. Grillo senior). Sul video, invece, qualcosa si può dire. Anzi, si deve dire. In 1 minuto e 40 secondi si concentrano tanti dei pregiudizi che speravamo di aver superato.

1)La donna mente, Ciro Grillo è innocente

Perché un gruppo di stupratori seriali non sono stati arrestati?[…]La legge dice che gli stupratori vengono presi e messi in galera e interrogati in galera o ai domiciliari”. Per Grillo il mancato arresto del figlio è una prova di innocenza. Per lui le autorità non hanno ordinato l’arresto perché si sono accorte che “non è vero niente”. Non c’è stato nessuno stupro, la ragazza si sarebbe inventata tutto. Ma di che legge parla Grillo? L’articolo 609 bis del codice penale, che disciplina le pene per i casi di stupro, dispone l’arresto obbligatorio per lo stupratore colto in flagrante. Ma questo non è il caso di Ciro Grillo. La denuncia, infatti, è arrivata in un secondo momento e la procura ha deciso di procedere in un altro modo. Questa, almeno, è la legge che conosco io.

2)Se la donna non denuncia subito, c’è qualcosa di strano

“Una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio fa kite surf e dopo otto giorni fa la denuncia … è strano!”. Veramente, no. Lo stupro è, per la persona che lo subisce, a tutti gli effetti un trauma. E ognuno elabora i propri traumi con tempi e modi diversi. L’articolo 609 bis stabilisce che la denuncia debba arrivare entro un anno dalla violenza. In passato la “scadenza” era di sei mesi. Tempi ristretti che rendono non perseguibili molti stupri. Di testimonianze di donne che confermano questo ce ne sono a bizzeffe. Sul web e non solo. Sminuire la ragazza solo perché ha denunciato otto giorni dopo e nel frattempo ha fatto kite surf, senza strapparsi le vesti e urlare per strada, lo trovo becero. Siamo al solito “non ha urlato, non c’è stato stupro”.

3)Era consenziente, si vede

La prova madre, per Grillo, è un video che dimostrerebbe che la ragazza era consenziente. Perché “c’è il gruppo che ride”. Ridono tutti insieme, c’è consenso, “si vede“. Sono ragazzi, si stanno divertendo. Sono pure poco vestiti. A maggior ragione non può esserci stato uno stupro. Ma è la vecchia storia della “gonna corta“: se la ragazza stava lì, a ridere, insieme a quattro maschi praticamente nudi, era consenziente. Non è quello che dice lei, però. Lei ha denunciato di essere stata presa per i capelli, costretta a bere mezzo litro di vodka e poi abusata a turno dai ragazzi.

La procura di Tempio Pausania deve aver interpretato le “prove” in modo diverso dal comico, perché ha rinviato a giudizio Ciro Grillo. Le indagini proseguiranno e Grillo junior potrà essere condannato oppure assolto, ma l’offesa che il video di suo padre arreca a tutte le donne che hanno subito violenza, quella resta.

Il video è stato pubblicato da Grillo sul suo blog, su Youtube e su Facebook.

S.B.

Leggi anche: Quote rosa, servono davvero?

Quote rosa. sì o no?

Quote rosa, servono davvero?

La polemica sulle poche donne presenti nel nuovo governo italiano (8 su 23 ministri) ha riportato l’attenzione su diverse questioni. La scarsa presenza femminile in alcuni settori, le difficoltà che le donne incontrano nel raggiungere posizioni di responsabilità e anche le tanto contestate quote rosa.

Che cosa sono le quote rosa

Le quote rosa sono uno strumento che inserisce, per legge, un numero minimo di donne in determinati ambienti altrimenti prevalentemente maschili. Ci sono delle quote rosa, ad esempio, in politica. Le liste elettorali, infatti, devono contenere un numero minimo di candidate e vige la regola della doppia preferenza di genere. La rappresentanza di entrambi i generi deve essere poi garantita anche nelle giunte comunali e in tutti gli enti e le aziende di comuni e province. Nel 2013 il Tar del Lazio ha stabilito che il genere minoritario si considera ben rappresentato con una quota del 40%. (Tar Lazio, sentenza 21 gennaio 2013, n. 633)

Esistono anche le quote blu?

No. Ad oggi, le “quote blu” non esistono. Questa espressione è comparsa nel 2006, in un’intervista fatta dal Corriere della sera all’allora ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni (governo Prodi).

Fioroni sosteneva che la scuola fosse l’unico settore ad aver bisogno di “quote blu”, anziché di quote rosa, ritenendo un errore la quasi completa femminilizzazione dell’insegnamento. Oggi, in effetti, circa l’80% dei docenti è di sesso femminile, ma questo non basta per introdurre delle quote blu. Per farlo, infatti, servirebbe dimostrare che gli uomini sono così pochi perché sono esclusi o discriminati. In realtà, nella scuola italiana non ci sono barriere di ingresso per gli uomini analoghe a quelle che le donne devono superare in altri settori. Il problema, semmai, è culturale: molti uomini non scelgono l’insegnamento perché lo considerano ancora un mestiere da donna.

Le quote rosa servono davvero?

Le quote rosa non piacciono a tutti. Anche tra le donne non mancano le voci critiche: alcune sostengono di non averne bisogno, altre le considerano un “aiutino” non richiesto e più discriminatorio che utile, che insinuerebbe che le donne non possono farcela con le loro sole forze.

Dal mio punto di vista, non è così. Le quote rosa esistono perché le donne hanno tutte le carte in regola per conquistare i posti che vogliono in una gara equa, ma nel contesto italiano spesso la gara non è equa. Lo hanno dimostrato i numeri della pandemia: il 99% dei posti di lavoro persi erano di donne. Difficile pensare che sia solo una triste casualità.

In Italia una donna su due non lavora. E quelle che lavorano incontrano innumerevoli ostacoli. Si inizia con la classica, orribile domanda “vuole avere dei figli?” ai colloqui di selezione e poi si continua con stipendi inferiori e soffitti di cristallo. A ciò si aggiungono poi alcuni stereotipi ancora radicati: che alcuni lavori non siano adatti alle donne, che le donne siano meno competenti degli uomini in certi mestieri.

La politica, ad esempio, è stata a lungo considerata roba da uomini. Molti pensavano (e qualcuno lo pensa ancora) che le donne fossero troppo sensibili per questo mondo di forte contrapposizione. Senza le quote rosa, forse le donne in politica sarebbero ancora meno.

Conclusione: sì, le quote rosa servono

In un paese ideale, le quote rosa non servirebbero. Basterebbero le competenze, il merito indipendentemente dal genere. Ma l’Italia non è un Paese ideale. Ricapitolando: il 50% delle donne non lavora (approssimando per difetto), il 99% dei posti persi a causa del Covid erano di donne, gap salariale e soffitti di cristallo sono ancora perfettamente integri, soprattutto in alcuni settori tradizionalmente maschili. In questo contesto, le quote rosa secondo me possono aiutare. L’obiettivo, però, dovrebbe essere renderle inutili nei prossimi decenni, ma la strada sembra ancora lunghissima.

S.B.

Grease

Grease accusato di sessismo, chi ha ragione?

Qualche giorno fa la BBC ha mandato in onda Grease, il classico con John Travolta e Olivia Newton-John. Tuttavia, la trasmissione del film non ha soddisfatto tutti. Anzi, alcuni telespettatori hanno chiesto, tramite i social, che non venga più riproposto. La polemica, che si è infiammata soprattutto tra i giovani, ha per bersaglio alcune parti del musical, ritenute stereotipate o inopportune al punto che Grease è stato accusato di sessismo.

Le scene maggiormente criticate sono quelle che coinvolgono Putzie, un amico del protagonista Danny, che guarda sotto le gonne delle ragazze, e il presentatore radiofonico Vince Fontaine che, in occasione del ballo, invita con una battuta a formare solo coppie uomo-donna. Poi la trasformazione finale di Sandy da ragazza acqua e sapone a “pantera” e un passaggio della canzone Summer Nights, definito “rapey” (che incita allo stupro).

Inutile dire che il mondo del web si è subito spaccato tra i fan di Graese, che difendono il loro mito a spada tratta, e gli altri. Il risultato è stato una delle solite discussioni (virtuali) tra sordi, tra due schieramenti che non vogliono sentire l’uno le ragioni dell’altro.

Bene, io non sono una fan di Grease. L’ho visto (in casa abbiamo anche il dvd), ma non mi ha mai conquistato. Anzi, quando a dieci anni mi sono ritrovata a ballare You are the one that I want, con addosso una gonna plissettata, alla recita di fine anno, volevo sotterrarmi. Sarà che mi sono sempre sentita troppo poco Sandy…

Non ho, quindi, quell’affetto che spinge gli appassionati a difendere Grease ad ogni costo. Al contrario, alcune critiche le comprendo. Quello che invece non condivido è il processo alla storia, ma andiamo con ordine

La scena con Putzie che si sdraia sotto le panche per guardare le mutande alle ragazze è inopportuna? Nel 2021, magari sì. La battuta di Vince Fontaine è fuori luogo? Nel 2021, forse sì. La trasformazione di Sandy in panterona sexy promuove un’immagine stereotipata della donna? Per noi, probabilmente sì. Perché abbiamo conosciuto la body positivity e non siamo più così inclini a cambiare radicalmente noi stesse per il Danny Zucco di turno. Qualcun altro dirà che Sandy “ha solo imparato a valorizzarsi”… Punti di vista.

Poi, la canzone. In Summer nights compare la frase “Did she put up a fight?” (“lei ha lottato?”) che noi italiani abbiamo sempre ignorato. Ci è sempre sfuggita. Ma se sentissimo, in una canzone che racconta di una notte d’amore, “lei ha provato a liberarsi?”, “lei ha fatto resistenza?”, non penseremmo a qualcosa di non del tutto consensuale? Probabilmente ci colpirebbe, come Summer nights ha colpito alcuni giovani inglesi.

Detto tutto questo, Grease può anche essere accusato di sessismo, ma a che scopo? Si tratta di un film uscito negli anni Settanta e ambientato negli anni Cinquanta, quando la società era molto meno inclusiva. Il nostro passato è sessista, omofobo e razzista. Ma non si può processare il passato. Quella contro Grease è una polemica che può essere condivisa o meno, ma che non serve a molto. Il vero scandalo sarebbe veder uscire, quando i cinema riapriranno, nuovi film con scene come quelle contestate a Grease.

S.B.

Leggi anche: Chiara Ferragni agli Uffizi, storia di uno scontro tra culture

catcalling isn't cute. Stop catcalling

Che cos’è il catcalling? Una petizione chiede che sia reato

Che cos’è il catcalling?

Per sapere che cos’è il catcalling, bisogna intanto prendere un dizionario bilingue. Il termine inglese catcall significa “fischio” o, quando è utilizzato come verbo, “fischiare (qualcuno)”, solitamente in pubblico (Sansoni Inglese). In senso lato, dunque, anche “infastidire” (WordReference).

Da catcall, quindi, catcalling. Questa parola è recentemente comparsa anche in Italia (ma il Vocabolario Treccani online non l’ha ancora indicizzata) per indicare i numerosi apprezzamenti non richiesti (fischi, frasi inopportune, strombazzate di clacson) che le donne ricevono semplicemente camminando in strada.

Fischi e colpi di clacson, una legge può funzionare?

Su Change.org è nata una petizione dal nome “WannaBeSafe – Italia” che conta al momento circa 10mila firme e chiede al Parlamento italiano di rendere il catcalling un reato. Ma una legge sul catcalling funzionerebbe?

Fischi e colpi di clacson arrivano, nella stragrande maggioranza dei casi, da sconosciuti. Una ragazza sta tornando a casa e si sente fischiare da qualcuno, oppure un passante abbassa il finestrino della sua auto per rivolgerle parole indiscrete. Per identificare (e punire) questi episodi, la ragazza dovrebbe avere la possibilità e la prontezza di annotare la targa della macchina, o di memorizzare i volti dei disturbatori. E non è scontato che ci riesca, soprattutto se è buio e i responsabili si dileguano in fretta. Dal punto di vista pratico, dunque, una legge sul catcalling incontrerebbe varie difficoltà di applicazione, a meno che, fortuitamente, una pattuglia delle forze dell’ordine non si trovi sul posto. Questo, però non significa che sarebbe del tutto inutile.

Che cos’è il catcalling? Un problema di cultura

Una legge che riconosce come reato il catcalling sarebbe, pur con le suddette difficoltà pratiche, un segnale. Significherebbe riconoscere che non è normale apostrofare una donna come si farebbe con un cane o un gatto (cat), a fischi. Non è normale gridarle proposte indecenti dall’abitacolo di un’utilitaria. Qui però sorge un problema, perché invece, purtroppo, per qualcuno è normale.

Non serve andare molto indietro nel tempo per trovare una conferma di ciò. Alla fine di giugno, infatti, lo psichiatra Raffaele Morelli, incalzato dalla scrittrice Michela Murgia, ha rilasciato alcune dichiarazioni ulla femminilità che hanno suscitato aspre polemiche. Ad esempio, Morelli ha detto che “se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi“. Se sei una donna e uno sconosciuto ti guarda insistentemente o ti fischia, dunque, va tutto bene.

Quello di Morelli non è un pensiero isolato. Non a caso, il grafico sottostante, condiviso sulla pagina Instagram di WannaBeSafe Italia, mostra come una percentuale molto alta di donne abbia avuto esperienza diretta di varie forme di catcalling. Da sinistra: sguardi insistenti, clacson, fischi, commenti sessisti, gesti volgari, commenti sessualmente espliciti, baci.

Alla luce di tutto questo, che cos’è il catcalling se non un problema di cultura? Una legge non potrebbe risolverlo alla radice, ma permetterebbe di riconoscerno per quello che è, un problema appunto, non un complimento.

S.B.

Clicca qui per visualizzare la petizione WannaBeSafe su Change.org

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