10 MARZO 2020. In un diario, di solito, all’inizio ci si presenta. Quindi mi chiamo Sara, ho 21 anni e questo è il mio blog. Di norma cerco di commentare quello che accade, e da alcune settimane questo è il Coronavirus in Italia.
Il Coronavirus in Italia, riflessioni sparse
Sono – almeno in parte – i miei compagni di università quelli che abbiamo visto correre alla stazione per scappare dalla vecchia zona rossa con gli ultimi treni diretti al sud. E sono – sempre in parte – i miei coetanei quelli paparazzati in massa sui Navigli in piena emergenza. Da ieri tutta l’Italia è zona protetta perché noi – gli italiani – non riusciamo a modificare volontariamente le nostre abitudini.
Zona protetta significa spostamenti ridotti e scuole chiuse, discoteche chiuse, locali chiusi dopo le 18. Fino al 3 aprile tutto ciò che riempie le giornate di noi Millenials è sospeso. Saremo costretti a rivoluzionare la nostra routine e in questo, lo abbiamo dimostrato, non siamo bravi.
Quando ci hanno chiesto, nelle settimane passate, di restare in casa non l’abbiamo fatto. Siamo andati al mare, in montagna, in piazza a fare aperitivo con gli amici. Abbiamo aspettato che arrivasse un divieto nazionale, perché le cose a cui non volevamo rinunciare erano troppe. Il timore di infettare genitori e nonni è arrivato a rallentatore, come una di quelle onde lunghe che finché sono lontane sembrano solo una banale increspatura. Gli appelli alla responsabilità c’erano, ma a qualcuno questo sembrava solo un brutto sogno. Uno scenario di un videogioco distopico che se chiudi il computer si dissolve. All’inizio al Coronavirus in Italia nessuno voleva crederci davvero.
Il nostro problema è che non siamo abituati al vuoto. Organizziamo – o meglio organizzavamo – le giornate con la precisione chirurgica di chi vuole imbottire quelle 24 ore fino a farle scoppiare. Prima che l’università chiudesse, la mia routine era fatta così: tirocinio fino alle 13, lezioni fino alle 17, altri impegni (immancabili) fino alle 19, ritrovo al pub alle 21,30. Poi il sabato sera nei locali, la domenica cinema o bowling o centro commerciale. Ora, tutto chiuso. Possiamo guardare la tv, leggere molti libri, continuare a studiare, ma il senso di vuoto rimane. Come se rallentare non fosse più parte del nostro DNA.
Ci viene in aiuto la tecnologia, innegabilmente. Senza le lezioni a distanza molti di noi rischierebbero di perdere l’anno accademico o scolastico, però avere come compagni di classe dei pallini colorati, con le iniziali di nomi e cognomi, fa un effetto strano. Manca qualcosa. Siamo connessi quasi da quando siamo nati, questa dovrebbe essere la nostra dimensione naturale, eppure non siamo contenti. Proprio ora che i genitori non ci criticherebbero se stessimo tutto il giorno al cellulare o al computer, ora che abbiamo una ragione valida per farlo, vogliamo uscire.
Sarà la connessione che va a pezzi e bocconi, l’audio che gracchia o il migliore amico che in videochiamata sembra pure più scemo del normale, ma è come se l’obbligo di sfruttare al massimo il nostro mondo virtuale ci avesse infine mostrato i suoi limiti. E anche cazzeggiare sui social non fa granché, se nessuno ha niente da condividere.
Il Coronavirus sta attaccando la logica stessa di una piattaforma come Instagram: è una grande vetrina e, come in un negozio, in vetrina si mette il vestito più bello. Se siamo tutti in casa, con il pigiamone della nonna e i calzini di babbo Natale a marzo inoltrato, non c’è molto che vogliamo mostrare. Alle quinta storia Netflix e copertina ne abbiamo abbastanza. Alcuni irriducibili si affidano ai repost, così la bacheca si riempie di natiche libere in costumi da bagno striminziti del 15 agosto. Gli altri osservano. Non ci sono esperienze fighe che possiamo fare e ostentare di aver fatto, è un colpo di spugna ai sogni di gloria di molti social addicted.
Per tre settimane dobbiamo accettare che il Coronavirus in Italia sta ribaltando un po’tutto. Che per adesso il modello vincente è quello che di solito risulta un po’sfigato: stare a casa sul divano, anche il sabato sera, a leggere un libro o giocare a Risiko. Finché l’emergenza non sarà finita siamo costretti a frenare. Non è nel DNA della nostra generazione, è come cercare di rallentare un Frecciarossa in corsa, ma è necessario. Il Coronavirus in Italia ci sta nascondendo il carburante ma solo così possiamo ripartire.
S.B.