Didattica mista post-Covid, ecco la petizione

UNIDAD - Universitari per la didattica a distanza integrata, didattica mista

L’università italiana va verso il ritorno in presenza, ma non tutti sono d’accordo. La didattica mista, che da un anno e mezzo consente a chi vuole di seguire la lezione in streaming, infatti, ha almeno 15mila sostenitori. Questo è il numero di firme che si contano su Change.org per la petizione di UNIDAD – La didattica a distanza integrata post Covid-19.

La petizione fa parte del progetto omonimo, che su Facebook ha un gruppo con circa 13mila iscritti, che chiede il mantenimento della didattica mista anche a pandemia conclusa. Il motivo? Non tutti gli studenti hanno le stesse necessità, ma tutti hanno lo stesso diritto di studiare.

Più concretamente, il diciannovenne fresco di maturità e il quarantenne con un lavoro e una famiglia hanno lo stesso diritto di studiare, perché questo è universale e non conosce limiti di età o di condizioni personali, ma non hanno le stesse necessità. Per studenti genitori, lavoratori, caregiver, pendolari a lunga percorrenza, studenti con problemi di salute la didattica mista è una risorsa. Ne parlavo qui, nella mia personale confessione da “pro DAD”.

Didattica integrata post-Covid, come firmare la petizione

La petizione di UNIDAD si può su Change.org, inserendo il proprio nome e la propria email. Dopo aver inviato la propria firma, è necessario confermarla cliccando sul link che arriva per email, altrimenti non sarà considerata valida.

Servirà a qualcosa?

Quando firmiamo una petizione, o aderiamo a un progetto, ci chiediamo sempre se servirà a qualcosa, se produrrà davvero un effetto o cadrà nel dimenticatoio. Non tutte le petizioni centrano il loro obiettivo, ma quando alcune di esse ottengono un sostegno massiccio, a volte qualcosa si muove. Su Change.org, ad esempio, è stata lanciata anche la petizione “Stop tampon tax, il ciclo non è un lusso” che ha superato le 600mila firme. Alla fine, l’IVA sugli assorbenti è stata abbassata dal 22% al 10%.

Tentar non nuoce, dunque, se non altro per dimostrare di esserci. Per dire “ci siamo anche noi” al mondo dell’istruzione, che vorrebbe riavvolgere il nastro e riportare l’università al febbraio del 2020, quando le lezioni in streaming non esistevano e studenti lavoratori & co. finivano nel gruppone dei “non frequentanti” senza fare rumore.

S.B.

Parlamento italiano

Chi sarà il nuovo presidente della Repubblica? La “donna qualunque” nella corsa al Colle

Draghi, Berlusconi, un dromedario. Con queste tre parole, snocciolate con ironia qualche giorno fa, nello studio di Propaganda Live, Serena Dandini ha riassunto il problema della corsa al Quirinale. Il dromedario sarebbe la donna qualunque, la candidata di sesso femminile spesso evocata da giornali e politici. Una a caso, purché sia donna e si possa colorare di rosa una casella, quella della presidenza, che è sempre stata occupata da un uomo. Non per niente anche nella domanda che da settimane rimbalza ovunque – Chi sarà il nuovo presidente della Repubblica? – si usa il maschile. L’elezione di “una donna” qualsiasi, però, non sarebbe proprio una vittoria.

Chi sarà il nuovo presidente della Repubblica? “Una donna”, titoli sul web

Questo pasticcio nasce dal problema, innegabile, che l’Italia ha con la (scarsa) presenza femminile in determinati ambienti, politica inclusa. Le donne sono più della metà della popolazione (51,2%, dati Istat al 1 gennaio 2021), eppure in Parlamento siedono solo su un terzo dei seggi. Prima di Elisabetta Casellati, nessuna donna era stata presidente del Senato. Nessuna ha mai ricoperto il ruolo di prima ministra, ad oggi, e solo con la presidenza di Marta Cartabia (dicembre 2019-settembre 2020) la Corte Costituzionale ha avuto una donna al vertice. Casellati e Cartabia sono presenti anche nella maggior parte dei “toto nomi” per il Colle, ma non è chiaro se i partiti le stiano effettivamente prendendo in considerazione.

Dunque una donna al Colle per pulirsi la coscienza. Una donna per fare bella figura. Una donna per far vedere a tutti che l’Italia non è più così maschilista, nonostante l’indice sull’uguaglianza di genere 2021 che ci piazza al 14esimo posto in Europa. Peccato che non funzioni proprio così.

L’elezione di una presidente sarebbe un grande passo avanti se avvenisse spontaneamente, cioè se i partiti, durante i loro tradizionali calcoli e accordi, convergessero su una donna per lo spessore della sua figura. Sarebbe fantastico se al tavolo della trattativa si trovasse una donna che mette d’accordo (quasi) tutti per le sue capacità e le sue esperienze. Tuttavia, se questo non avvenisse, non avrebbe molto senso tirar fuori dal cappello un nome qualsiasi, solo perché questa volta dev’essere donna a ogni costo. Solo per dire di aver infranto un altro soffitto di cristallo.

A quel punto, anziché salvare le apparenze con una candidata a caso, sarebbe più onesto farsi un’analisi di coscienza e chiedersi come tutto ciò sia possibile. Le donne votano e sono elette dal 1946, possibile che non ci siano mai state – e continuino a non esserci – candidate con le carte in regola per la presidenza della Repubblica? Non è che forse – dico forse – ci sono delle dinamiche, nei partiti e in generale nel mondo della politica, che continuano a favorire gli uomini? La domanda, come quella da cui siamo partiti Chi sarà il nuovo presidente della Repubblica? non è retorica.

S.B.

Leggi anche: Parliamo come pensiamo, il problema del genere femminile

computer e block notes, didattica a distanza

Confessione di una pro DAD

Sì, avete letto bene. Il titolo non mente, non è stato messo lì solo per convincervi ad aprire l’articolo. Chi scrive si dichiara fermamente a favore del mantenimento della didattica mista anche dopo la pandemia. State dunque per leggere le opinioni di una pericolosa pro DAD (dovrei dire pro-didattica-mista, per essere precisa, ma pro DAD è più corto e suona meglio).

Avvertenza: tutto ciò che segue è riferito solo all’università, non ai gradi di istruzione inferiori.

Pro DAD, davvero?

Sì, ma andiamo con ordine. Prima di stilare il mio personale elenco dei lati positivi della didattica mista e a distanza, ho ripercorso mentalmente la mia routine pre-pandemica.

Febbraio-maggio 2019, secondo semestre del mio secondo anno di università. Sveglia alle 6,30, treno alle 7,32 da Prato centrale, arrivo a Bologna centrale alle 8,40 per iniziare le lezioni alle 9 o 9,15. Prima lezione dalle 9 alle 11. Seguivano 4 o 6 ore di studio/pranzo improvvisato/nulla cosmico tra biblioteche e sale studio. Altre lezioni dalle 15 (o dalle 17) alle 19. Treno alle 19,09 con annessa figuraccia quando mi alzavo, un quarto d’ora prima della fine dell’ultima lezione, per andare in stazione: porte e sedie cigolavano tremendamente, puntando tutti gli occhi sulla sciagurata sottoscritta che cercava di dileguarsi in punta di piedi. Chiavi nella toppa di casa alle 20,40 circa.

Questo è stato il periodo più frenetico, gli altri semestri erano un susseguirsi di lezioni (non sempre a orari così scomodi, per fortuna) e corse verso la stazione in stile Speedy Gonzales per arrivare puntuale a lavoro, quando aiutavo un gruppo di studenti a fare i compiti, a Prato. Una quotidianità con l‘acqua alla gola, in pratica, cercando di incastrare tutto e studiando nei ritagli di tempo, nei buchi tra una lezione e l’altra e sul treno.

Va bene, però “fate sacrifici”

Se la didattica mista fosse esistita tre anni fa, avrei potuto seguire da casa la lezione della mattina, dormendo un’ora in più ed evitandomi ore di vuoto e molti pranzi freddi.

A questo punto, però, qualcuno dirà che tutto ciò fa parte del gioco e che dobbiamo fare sacrifici (vedi le dichiarazioni di un docente riportate su Younipa.it), ma personalmente non condivido questa retorica che ci dipinge come dei rammolliti scansafatiche.

Non avrei voluto dormire un’ora in più per fare sogni più belli, ma per studiare meglio. Con la routine sopra descritta, quando arrivavo alla lezione delle 17 ero stanca e riuscivo a prendere solo qualche appunto disordinato. Ero in aula, ma da quelle lezioni in presenza non ho avuto il famoso valore aggiunto che, secondo gli oppositori della DAD, solo la “vera” università darebbe: non mi confrontavo con i miei colleghi, perché ero sempre di fretta e uscivo prima per non perdere il treno; non apprezzavo la spiegazione del professore, perché non riuscivo a concentrarmi abbastanza.

Qual era, dunque, il risultato dei “sacrifici”? Stavo fuori casa più di 14 ore, per poi dover recuperare molte cose destreggiandomi tra registrazioni passate sottobanco, appunti altrui e libri.

La matematica degli affitti

Forse, secondo i paladini dei sacrifici, avrei dovuto sacrificarmi ancora di più e chiedere un enorme sforzo economico alla mia famiglia per trasferirmi a Bologna. Nel 2019, però, potevamo considerarci fortunati se trovavamo un posto letto, in stanza condivisa ovviamente, per 250 euro al mese. Spese escluse, chiaro. Troppo per me.

La mia famiglia, infatti, ricadeva nel mucchio di quelli ricchi abbastanza da non avere una borsa di studio regionale, ma non a sufficienza per pagare un affitto a Bologna per cinque anni. Generalmente, a questo punto qualcuno mi dice che in ogni caso la DAD non può essere la soluzione. Bisognerebbe aumentare le borse di studio, o trovare un altro modo per abbassare i prezzi degli affitti. Ma quale? In cinque anni di università, non ho visto nessuna soluzione.

Inoltre, un affitto a prezzo calmierato o un improvviso raddoppio delle borse di studio avrebbe migliorato la mia situazione, ma questo non vale per tutti. Ci sono, infatti, studenti genitori, caregiver, lavoratori che non possono mollare tutto e trasferirsi, nemmeno con una borsa di studio. Sono studenti che hanno priorità diverse, ma che hanno lo stesso diritto allo studio degli altri.

I Cinque Punti della didattica mista

Alla luce di tutto ciò, ho fatto una piccola lista riassuntiva di quelli che, secondo me, sono i principali punti da considerare quando si parla della didattica mista.

  • La didattica mista non toglie niente a nessuno: non sostituisce l’università in presenza, ma la integra.
  • Dà allo studente la possibilità di gestire il suo tempo e di scegliere in base alle sue esigenze.
  • Azzera il tempo degli spostamenti per chi segue in DAD, agevolando gli studenti che devono conciliare lo studio con il lavoro o la cura di un familiare, chi vive lontano dall’università e chi ha problemi di salute che rendono difficile spostarsi.
  • La didattica mista consente a tutti di scegliere il corso dei loro sogni nell’università che preferiscono, anche a 500 chilometri da casa, senza dover rinunciare se l’impossibilità di pagare l’affitto o la situazione personale/familiare non permettono di trasferirsi.
  • Valorizza gli investimenti fatti nella digitalizzazione delle aule in questi due anni (leggi: con tutti i microfoni e le telecamere acquistate, che ci dovremmo fare?)

S.B.

Leggi anche: Didattica a distanza, apologia della DAD

giornali in stampa

Femminicidio di Giovanna Cantarero: il delitto nei titoli dei giornali

Il femminicidio di Giovanna Cantarero si è consumato qualche giorno fa a Misterbianco (Catania). Ad uccidere la donna, di 27 anni, è stato un uomo che le ha sparato dopo averla avvicinata chiamandola con il suo nomignolo:”Jenny“. Questo dettaglio ha conquistato le prime pagine di giornali e telegiornali, al punto che, quando ho aperto Google per cercare qualche articolo, mi sono accorta di non sapere il nome completo della ragazza.

La donna si chiamava Giovanna Cantarero, ma il suo caso ormai è “l’omicidio di Jenny”. Così ho dato a Google questa chiave di ricerca e ho deciso di fare un esperimento: farmi un’idea del delitto leggendo solo i titoli dei primi pezzi che l’algoritmo di proponeva. Non è un buon metodo per capire le cose, ma molte persone “si informano” proprio così, leggendo titoli e spezzoni di articoli.

Giovane, mamma, siciliana

Se dovessi dire chi era Giovanna – anzi, Jenny – basandomi sui titoli che Google mi ha proposto (vedi la gallery sotto), direi che era una donna giovane, a giudicare dalla sua foto, madre di almeno un bambino e di Misterbianco. Altro non posso sapere. Niente sulla sua età precisa né sul suo lavoro. Anzi, se leggessi solo l’anteprima di Live Sicilia saprei ancora di meno: “Catania, città scossa per l’omicidio della giovane mamma”.

Insomma, alla domanda “Chi era Jenny?”, gli articoli che Google mi ha dato in sorte rispondono “una mamma“. Quello che riguarda lei come donna e individuo (il suo lavoro e le sue passioni) passa in secondo piano. Devo aprire gli articoli (sì, non ho resistito e alla fine ho letto più del titolo) per scoprire che lavorava in un panificio.

Perché questa scelta di distribuzione delle informazioni? Non si poteva scrivere “giovane uccisa fuori dal panificio dove lavorava?“. Certo che si poteva e altri siti hanno fatto titoli più o meno così. Il fatto è che il titolo dovrebbe essere breve e accattivante, quindi bisogna fare una selezione: ci interessa di più che Giovanna fosse mamma o panettiera? (POV: sono un titolista) “Mamma, ovviamente!”. Il motivo è duplice:

  1. Persiste la brutta abitudine di dare per scontato che, se una donna è madre, la maternità debba essere il suo tutto e la sua prima caratteristica
  2. Se muore una donna che lascia figli piccoli, l‘indignazione dell’opinione pubblica è garantita. Meglio quindi scriverlo subito, nel titolo, che era mamma: sono click assicurati. E se poi le battute sono finite, pazienza: si può sempre sopprimere il cognome, l’età o il mestiere.

Giovanna e quella “relazione burrascosa”…

Questo è un grande classico del racconto dei femminicidi. Come tutti i delitti, anche un femminicidio ha bisogno di un movente.

In realtà, il movente sarebbe implicito e risiederebbe nel desiderio dell’uomo di controllare la donna, di esercitare potere su di lei. Quando la donna si sottrae al dominio maschile, lasciando l’uomo o allontanandosi, scatta l’assassinio.

Non proprio una questione di cuore, dunque. La famosa “relazione burrascosa“, di per sé, non uccide, ma è una spiegazione sufficientemente semplice e “romantica“. Per questo piace un po’a tutti, a volte anche a chi si occupa del caso. La foto sotto, ad esempio, proviene dall’edizione delle 13 del TG5 di domenica 12 dicembre 2021. “Relazione burrascosa” è virgolettato perché chi ha fatto il servizio ha messo le mani avanti: lo ha detto la polizia!

Il femminicidio di Giovanna Cantavamo nei titoli di apertura del TG5 (12/12/21, ed.delle 13)

Nelle grinfie di un “mostro”

Forse qualcuno avrà notato che due dei sei titoli che ho screenshottato per il mio esperimento sono di Fanpage. Evidentemente l’algoritmo di Google crede che questa testata possa essere di mio gradimento, ma non è questo il punto. Uno dei due articoli di Fanpage riportava nel titolo una dichiarazione del sindaco di Misterbianco che si augurava che il “mostro” fosse presto catturato.

Il “mostro” non è stato catturato, ma è stato trovato senza vita (suicida, secondo la polizia), ed era Antonino Sciuto, ex fidanzato della vittima. Ma chiamarlo “mostro” non è il massimo; sarebbe meglio definirlo semplicemente “assassino“?

Definendolo mostro, infatti, si passa un messaggio del tipo: “è un decerebrato, un pazzo, un individuo crudele e pericoloso”. Non un uomo qualunque, quindi. E se è uno anormale, anche le sue azioni sono fuori dal comune (per una spiegazione più approfondita, formale e autorevole: Mia Consalvo, The Monster next door). Ed ecco l’errore: i responsabili della maggior parte dei femminicidi sono uomini qualunque, figli di una società che ha abolito il delitto d’onore solo quarant’anni fa. Si potrebbe riassumere con uno slogan di Non Una Di Meno, che mi è capitato di vedere in giro sui social: “L’assassino non è un malato ma un figlio sano del patriarcato”.

Conclusione: il mio titolo preferito

Dopo tutta questa tiritera che sicuramente avrà fatto arricciare il naso a qualcuno (mi immagino certe smorfie su quella parolaccia, “patriarcato“) e addormentare molti altri, tiriamo le somme.

Se dovessi decidere io, scriverei il titolo del Quotidiano Nazionale (infatti gliene ho scopiazzata una parte). “Catania, femminicidio di Giovanna Cantararo: trovato morto il presunto omicida“. Riconosce che il delitto è un femminicidio è non un comune omicidio e assegna i giusti ruoli. Cita la vittima con nome e cognome, dandole dignità e autorevolezza, anziché cedere alla tentazione di drammatizzare e romanticizzare con il nomignolo. Introduce l’uomo per quello che è al momento, un “presunto omicida“, né mostro né altro (la perla che ci fa sapere solo che non è il padre della bambina – e allora chi è? – mi lascia perplessa). Titolo promosso. Per gli altri, sospensione del giudizio.

Facebook down

Facebook down, un pomeriggio in stile 2003 tra disperati e felicissimi

Era un lunedì come tanti, poi metà del nostro mondo digitale è andata fuori uso. Mezza giornata senza WhatsApp, Facebook e Instagram. Praticamente non sapevamo più come comunicare. Con il grande Facebook down, il nostro pomeriggio è diventato strano. Twitter, improvvisamente pieno di ventenni, ha avuto sei ore di gloria e probabilmente pure Telegram ha fatto la sua parte.

Ma, se volevamo dire qualcosa di urgente a una persona, abbiamo dovuto telefonare. Telefonare, come i genitori. Che roba particolare. Ora c’è pure uno studio che mette nero su bianco che noi Millennials odiamo telefonare. Per quel che mi riguarda, è vero. Non chiamo mai, se posso mandare un messaggio o una email, e adesso che pare sia un qualcosa di generazionale mi sento pure meno in colpa. Sul fatto che questo ci renda una ‘generazione muta‘, come ci chiamano quei ricercatori nel loro report, però, mi permetto di dissentire.

Se poi proprio non volevamo chiamare, l’altro ieri, dovevamo usare gli sms. Chi se li ricordava più questi dinosauri della comunicazione? Personalmente, credo che Tim e Poste Italiane siano le uniche due (non) persone di cui ho letto un sms negli ultimi 5 anni, almeno.

Insomma, per un pomeriggio ci siamo dovuti arrangiare a comunicare come si faceva prima che WhatsApp esistesse. Niente instant messages, niente ultimi accessi e spunte blu di lettura. Tre squilli a vuoto, due sms persi nel nulla cosmico. Un piccione viaggiatore, per chi lo aveva nel cortile. Come nel 2003, quando Marck Zuckerberg si girava i pollici da qualche parte, pensando a un’idea un po’stramba che gli frullava nella testa. Una rete sociale. Connettere le persone via Internet. Nel 2004 quell’idea era diventata Facebook.

Nelle ore di Facebook down ho sentito (o letto) di persone disperate e di altre in paradiso. Qualcuno si è buttato su Twitter, qualcun altro ha pensato che fosse il momento giusto per qualche (onestamente già sentita) tiritera su quanto siamo dipendenti dai social ecc.. Sta di fatto che il mondo si è diviso in due squadre e mezzo: chi controllava Instagram ogni cinque minuti, cercando di non andare in iperventilazione; chi sorseggiava un tè sul divano, leggendo un vecchio libro e sperando che i social non risorgessero mai; e chi, stando a metà strada tra le due situazioni appena descritte, guardava Netflix buttando ogni tanto un occhio a WhatsApp. Perché va bene il Facebook down, ma quel messaggio della crush lo volevamo proprio ricevere. Chissà che delusione per qualcuno scoprire, all’una di notte, che il messaggio non c’era. E non per colpa del buon vecchio Mark.

olimpiadi tokyo 2020

Olimpiadi Tokyo 2020 – Una provocazione…

Si sono concluse oggi le Olimpiadi Tokyo 2020. L’Italia torna a casa con un medagliere da record, ma oltre allo sport c’è di più. Infatti, più che mai questi sono stati Giochi che hanno affiancato allo sport molte altre questioni. Il problema della salute mentale, il Black Lives Matter, la vicenda dell’atleta bielorussa che il regime voleva rimpatriare, ad esempio. Poi, ancora, le rivendicazioni delle donne: la scelta delle ginnaste tedesche di indossare un body intero, anziché il classico sgambato, e la rivincita di Lucilla Boario, una delle “cicciottelle dell’arco” (titolo di giornale sui Giochi di Rio 2016).

La storia di Lucilla Boario accende i riflettori su un’ulteriore problema: il modo in cui i giornali parlano delle atlete. Professioniste chiamate solo con il nome di battesimo, come se fossero la vicina della porta accanto, mentre per i colleghi si usa logicamente il cognome; interi pezzi dedicati alla vita privata delle vincitrici e alle loro probabili (secondo chi?) aspirazioni di matrimonio e famiglia; commenti sull’aspetto fisico delle donne, non pertinenti con la loro performance in gara. Questo stile sessista ha ricevuto numerose critiche negli ultimi anni, ma non è del tutto scomparso. Immaginiamo allora, in modo ironico e provocatorio, che le parti siano invertite. Scriviamo un articolo su un immaginario atleta uomo alle olimpiadi Tokyo 2020, con tutti gli stereotipi che colpiscono le donne. Lo chiameremo Mario.

Mario, il ragazzo oro che incanta Tokyo

Mario Bianchi, trentadue anni, occhi azzurri e sorriso sicuro, è medaglia d’oro nello skateboard. Una favola, la sua, iniziata in un piccolo paese del nord Italia, dove vive tutt’ora con la fidanzata e i loro due cani, Pallina e Romeo. Al paese, duemila abitanti o poco più, nessuno ci crede: Mario ha vinto le Olimpiadi, è tutto vero? (*fotografia con zoom sui bei glutei di Mario*).

Un campione umile che colpisce subito per la sua bellezza singolare – l’ha presa dalla mamma, rivendicano alcuni parenti con orgoglio -, a cui però si aggiunge un gran cervello. Mario ci ha sempre creduto, ha condotto la gara perfetta, con testa e cuore, e ha vinto. Il sogno è realtà, e ora? Dopo quindici anni di attività agonistica a ritmi frenetici, non nega che la fatica inizia a farsi sentire. Conciliare lo sport fatto a un livello così alto con la vita privata non è facile. Forse è arrivato il momento di appoggiare lo skateboard al muro e chiedere a Francesca, la sua compagna da una vita, di sposarlo. Quando glielo chiediamo, Mario non nega che gli piacerebbe. Le nozze e, perché no, anche un figlio. Un finale da favola per una fiaba dorata.

Se questo articolo vi fa un po’ridere, o vi sembra patetico, o qualsiasi altra cosa vi susciti, chiediamoci perché dovremmo parlare così di una atleta. Qualcuno dirà che di articoli come questo ormai non ce ne sono più, ma non lasciamoci ingannare: ci sono. E se anche non ci fossero, appena cinque anni fa Lucilla Boario e le sue compagne di squadra erano “le cicciottelle dell’arco”. Cinque anni fa, non cinquanta. Dalle Olimpiadi Tokyo 2020 è tutto. Linea a Parigi 2024.

S.B.

Leggi anche: Silvia e Ciro Grillo, qual è la vittima perfetta di uno stupro?

ragazza di spalle

Silvia e Ciro Grillo, qual è la vittima perfetta per uno stupro?

Continua a tenere banco il caso di Silvia e Ciro Grillo, figlio del comico Beppe Grillo. Il ragazzo è accusato di stupro di gruppo insieme a tre amici, ma nega che ci sia stata violenza. Per lui, come per gli altri, la ragazza, Silvia, era consenziente. Lo stesso sostiene Beppe Grillo, che ha difeso il figlio in un video (analizzato qui) che ha scatenato numerose polemiche. La guerra sul consenso di Silvia nasce dal fatto che lei non è la vittima perfetta per uno stupro. Non risponde ai miopi criteri con cui la nostra società decide se è verosimile o meno che una donna abbia subito una violenza sessuale.

1)Silvia non ha urlato né pianto

Resiste ancora l’idea che una donna che non urla, o non piange disperatamente, in fondo sia consenziente. Una sorta di agghiacciante distorsione del detto “chi tace acconsente“. E tra Silvia e Ciro Grillo non c’è stata lotta, anzi, un filmato mostrerebbe la ragazza ridere insieme al gruppo.

2)Il giorno dopo non era diversa

In questo caso la credenza popolare è che uno stupro deve lasciare la vittima evidentemente devastata. Si cerca una prova visibile di ciò che è accaduto: lividi, graffi, o almeno un viso più triste del solito. Se invece tutto sembra perfettamente normale, ecco che arrivano i dubbi.

Silvia dopo la notte passata nella villa di Grillo è andata a fare kite surf. Un normalità apparentemente perfetta che ha alimentato molte insinuazioni sulla sua sincerità. Solo negli ultimi giorni è saltata fuori la testimonianza di un dipendente del B&B dove la ragazza alloggiava: secondo lui, la mattina dopo lei non era la stessa. Adesso, con uno sguardo maschile che certifica che c’era qualcosa di diverso, cambia tutto. Ora sì che possiamo crederle.

In realtà, però, sono moltissime le donne che il giorno dopo una violenza sessuale hanno continuato la loro vita di sempre. Alcune delle loro storie, raccolte dall’hashtag #ilgiornodopo, raccontano di ragazze che sono andate a fare shopping, al cinema, a scuola, a lavoro. Come al solito.

3)Non sembra una “brava ragazza”

Silvia e Ciro Grillo si conoscevano da poche ore quando lei ha accettato di andare a casa sua. Pare che avessero bevuto in discoteca, e poi che abbiano bevuto di nuovo dopo. Ma in Italia (e forse non solo) la vittima perfetta è la “brava ragazza“. Questo concetto, o meglio questa gabbia di cui ancora non ci siamo liberate, crea un ideale di ragazza seria, sempre responsabile (anche se ha sì e no vent’anni), che non beve, non assume droghe, non si mette in situazioni pericolose, non va a casa di quattro semisconosciuti. Ed ecco infatti che Beppe Grillo avrebbe commissionato un’indagine privata su Silvia, la sua personalità e gli effetti dell’alcol su di lei. Perché se lei fosse una “cattiva ragazza”, una che frequenta molti uomini e perde facilmente il controllo, sarebbe molto più facile spostare l’immaginario da uno stupro di gruppo a una banale serata di eccessi.

S.B.

Leggi anche: Ciro Grillo e Alberto Genovese – Due accusati fuori dal comune (Giovani Reporter)

Beppe Grillo

Ciro Grillo, il video che offende tutte le donne

Ciro Grillo, figlio del comico Beppe Grillo, è stato rinviato a giudizio per stupro di gruppo. Babbo Beppe, allora, ha pensato di difendere il figliolo a modo suo. Come? Con un video in cui urla molto e mortifica, in nemmeno due minuti, tutte le donne che hanno subito una violenza sessuale.

Sui fatti, che risalgono all’estate del 2019, sarà la giustizia a fare luce. La procura di Tempio Pausania, in Sardegna, dove il gruppo si trovava in vacanza, sta indagando. Non sta a noi, blogger e popolo del web, dire se Ciro Grillo sia uno stupratore o un “coglione” (cit. Grillo senior). Sul video, invece, qualcosa si può dire. Anzi, si deve dire. In 1 minuto e 40 secondi si concentrano tanti dei pregiudizi che speravamo di aver superato.

1)La donna mente, Ciro Grillo è innocente

Perché un gruppo di stupratori seriali non sono stati arrestati?[…]La legge dice che gli stupratori vengono presi e messi in galera e interrogati in galera o ai domiciliari”. Per Grillo il mancato arresto del figlio è una prova di innocenza. Per lui le autorità non hanno ordinato l’arresto perché si sono accorte che “non è vero niente”. Non c’è stato nessuno stupro, la ragazza si sarebbe inventata tutto. Ma di che legge parla Grillo? L’articolo 609 bis del codice penale, che disciplina le pene per i casi di stupro, dispone l’arresto obbligatorio per lo stupratore colto in flagrante. Ma questo non è il caso di Ciro Grillo. La denuncia, infatti, è arrivata in un secondo momento e la procura ha deciso di procedere in un altro modo. Questa, almeno, è la legge che conosco io.

2)Se la donna non denuncia subito, c’è qualcosa di strano

“Una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio fa kite surf e dopo otto giorni fa la denuncia … è strano!”. Veramente, no. Lo stupro è, per la persona che lo subisce, a tutti gli effetti un trauma. E ognuno elabora i propri traumi con tempi e modi diversi. L’articolo 609 bis stabilisce che la denuncia debba arrivare entro un anno dalla violenza. In passato la “scadenza” era di sei mesi. Tempi ristretti che rendono non perseguibili molti stupri. Di testimonianze di donne che confermano questo ce ne sono a bizzeffe. Sul web e non solo. Sminuire la ragazza solo perché ha denunciato otto giorni dopo e nel frattempo ha fatto kite surf, senza strapparsi le vesti e urlare per strada, lo trovo becero. Siamo al solito “non ha urlato, non c’è stato stupro”.

3)Era consenziente, si vede

La prova madre, per Grillo, è un video che dimostrerebbe che la ragazza era consenziente. Perché “c’è il gruppo che ride”. Ridono tutti insieme, c’è consenso, “si vede“. Sono ragazzi, si stanno divertendo. Sono pure poco vestiti. A maggior ragione non può esserci stato uno stupro. Ma è la vecchia storia della “gonna corta“: se la ragazza stava lì, a ridere, insieme a quattro maschi praticamente nudi, era consenziente. Non è quello che dice lei, però. Lei ha denunciato di essere stata presa per i capelli, costretta a bere mezzo litro di vodka e poi abusata a turno dai ragazzi.

La procura di Tempio Pausania deve aver interpretato le “prove” in modo diverso dal comico, perché ha rinviato a giudizio Ciro Grillo. Le indagini proseguiranno e Grillo junior potrà essere condannato oppure assolto, ma l’offesa che il video di suo padre arreca a tutte le donne che hanno subito violenza, quella resta.

Il video è stato pubblicato da Grillo sul suo blog, su Youtube e su Facebook.

S.B.

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covid 19 rosso

La zona rossa è uno stato d’animo: l’accidia

Stare in zona rossa in primavera è una Caporetto psicologica. Ma stare in zona rossa in una regione arancione è persino peggio. Sapere che 15 chilometri più in là si può uscire liberamente rende le restrizioni, se possibile, ancora più asfissianti. Non mi è mai piaciuto l’arancione, ma nell’ultimo anno è diventato il mio colore preferito. Prima del Covid era il rosso.

Il problema della zona rossa è che, ormai, è diventata uno stato d’animo. E tra tutti gli stati d’animo possibili, probabilmente assomiglia all’accidia. In un primo momento ho pensato alla tristezza, ma il paragone non funziona: per essere tristi, di solito, serve qualcosa (un esame bocciato, una lite con un amico, una brutta giornata a lavoro), ma per noi studenti in zona rossa non succede niente, le giornate si susseguono tutte uguali . E il peggio è che di questo ci dovremmo pure sentire sollevati: chi si ammala, o chi perde una persona cara per il Covid non può dire altrettanto. Loro sì che ce l’hanno quel qualcosa per essere tristi.

L’accidia è uno stato d’animo particolare, un misto di indolenza e apatia, incapacità di agire, noia, indifferenza. Nella Divina Commedia – libro dell’anno di cui un po’tutti abusano – gli accidiosi se ne stanno nell’Inferno, sprofondati nella palude dello Stige. sono completamente sommersi, la loro presenza è segnalata solo dalle bolle che increspano la superficie dell’acqua. Rende bene l’idea.

La vita in zona rossa, per chi prova a rispettare le regole, è un po’così, sommersa. Letto-Computer-Cucina-Divano-Evasione al supermercato-Computer-Letto. Una catena di montaggio di cui fare una torta o allenarsi al parco diventano gli unici momenti di rottura. Non sappiamo più come impiegare il tempo, perché in un anno di vita sociale limitata abbiamo ormai visto tutto quello che volevamo vedere e letto tutto quello che volevamo leggere. L’anno scorso, almeno, avevamo l’illusione che sarebbe stata una pausa breve e che ne saremmo usciti migliori. Pensa un po’che pazzi.

S.B.

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Festival di Sanremo 2021 teatro Ariston

Festival di Sanremo 2021 per una “non sanremiana”

Festival di Sanremo 2021. Quando c’è Sanremo non si parla d’altro. Era così anche in tempi normali e, a maggior ragione, è così adesso, con coprifuoco e restrizioni a congelare le nostre serate. Io, però, Sanremo di solito non lo guardo. Non con regolarità, almeno. Ho guardato un paio di serate lo scorso anno (e non fino alla fine), ma non è un appuntamento fisso. E non per chissà quale crociata ideologica, semplicemente perché non ho l’abitudine. In casa per anni non lo ha guardato nessuno, quindi non ho quella passione, frutto di anni di dibattiti familiari, per il commento del vestito del tale o della steccata dell’altro. Mia madre si è convertita negli ultimi anni, ma da un certo punto in poi dorme sul divano. Alla tirata fino alle due del mattino ancora non si è abituata.

Io non guardo Sanremo, dunque, ma Sanremo mi raggiunge ugualmente. Storie su Sanremo su Instagram, post su Sanremo su Facebook, servizi su Sanremo alla tv, articoli su Sanremo sui giornali. Un’overdose di Sanremo. Fioriscono i critici musicali (non sapevo di conoscerne così tanti) e gli Enzo Miccio del web. Una mutazione antropologica interessante. Sicuramente meglio adesso che si improvvisano critici musicali di quando si improvvisavano virologi.

Da tutte queste fonti io ho, dunque, un’idea di questo Festival di Sanremo 2021. Perché mi alzo, faccio colazione, accendo il cellulare e qualcuno si lamenta perché i big non sono davvero big. I cantanti di Sanremo li devi conoscere sennò che Sanremo è, mi dicono. Eppure, anche i Pinguini Tattici Nucleari erano sconosciuti e ora piacciono a tutti. Vabbè.

Pare che a forza di “su i braccioli, giù i braccioli” ci fosse un palloncino a forma di membro tra il pubblico (virtuale). Grazie Fiorello. Poi a Elodie cade un orecchino e su Twitter ne parlano in 1500 conversazioni (numero reale). E Bugo? Per ora non è scomparso.

Ovviamente ci sono anche le pagelle. Dei giornali, dei critici e di mille altri che si divertono così. Voti alle canzoni, voti ai vestiti… Elodie scivola ed ecco il classico articolo, irritante, che titola “incidente hot, il vestito fa vedere tutto!”. Ma non eravamo vaccinati, dopo la farfallina di Belen? E poi Achille Lauro che scatena la solita rissa social tra fan e hater. Alcuni dicono che non fa niente di originale (“lo facevano già Renato Zero e David Bowie”), ma intanto ne parlano. E parlano anche di Francesca Michielin che ha dato i suoi fiori a Fedez.

Ho aperto Instagram stamattina e sotto un post su di loro c’era una bolgia di commenti che reclamavano i fiori solo alle cantanti donne, come segno di galanteria. Non so. A volte mi sembra che i più di 70 anni che ci separano dalla prima edizione non siano mai passati. Francesca aveva già avuto i fiori. quindi ieri li ha dati a Federico, da pari a pari. Non le sembrava giusto che lui non li avesse. Dov’è lo scandalo? Ho capito che dare i fiori solo alle donne era una tradizione di Sanremo, ma le tradizioni si possono cambiare. Darli a tutti, senza distinzioni di genere, sarebbe più facile (e logico). Amadeus ci è arrivato ed ecco il cambio delle regole in corso. Ora anche Zlatan Ibrahimovic ha i suoi fiori.

Mentre finivo di scrivere mi è arrivata una notifica di un nuovo articolo su Sanremo. “Male anche la serata dei duetti“. Chi è il killer dell’auditel del Festival di Sanremo 2021? Forse il calcio (eppure Sanremo aveva Zlatan), o forse Netflix. Per noi “non sanremiani”, questa settimana Netflix è un amico prezioso.

S.B.

Leggi anche: Achille Lauro al festival di Sanremo 2020: genio o osceno?

Quote rosa. sì o no?

Quote rosa, servono davvero?

La polemica sulle poche donne presenti nel nuovo governo italiano (8 su 23 ministri) ha riportato l’attenzione su diverse questioni. La scarsa presenza femminile in alcuni settori, le difficoltà che le donne incontrano nel raggiungere posizioni di responsabilità e anche le tanto contestate quote rosa.

Che cosa sono le quote rosa

Le quote rosa sono uno strumento che inserisce, per legge, un numero minimo di donne in determinati ambienti altrimenti prevalentemente maschili. Ci sono delle quote rosa, ad esempio, in politica. Le liste elettorali, infatti, devono contenere un numero minimo di candidate e vige la regola della doppia preferenza di genere. La rappresentanza di entrambi i generi deve essere poi garantita anche nelle giunte comunali e in tutti gli enti e le aziende di comuni e province. Nel 2013 il Tar del Lazio ha stabilito che il genere minoritario si considera ben rappresentato con una quota del 40%. (Tar Lazio, sentenza 21 gennaio 2013, n. 633)

Esistono anche le quote blu?

No. Ad oggi, le “quote blu” non esistono. Questa espressione è comparsa nel 2006, in un’intervista fatta dal Corriere della sera all’allora ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni (governo Prodi).

Fioroni sosteneva che la scuola fosse l’unico settore ad aver bisogno di “quote blu”, anziché di quote rosa, ritenendo un errore la quasi completa femminilizzazione dell’insegnamento. Oggi, in effetti, circa l’80% dei docenti è di sesso femminile, ma questo non basta per introdurre delle quote blu. Per farlo, infatti, servirebbe dimostrare che gli uomini sono così pochi perché sono esclusi o discriminati. In realtà, nella scuola italiana non ci sono barriere di ingresso per gli uomini analoghe a quelle che le donne devono superare in altri settori. Il problema, semmai, è culturale: molti uomini non scelgono l’insegnamento perché lo considerano ancora un mestiere da donna.

Le quote rosa servono davvero?

Le quote rosa non piacciono a tutti. Anche tra le donne non mancano le voci critiche: alcune sostengono di non averne bisogno, altre le considerano un “aiutino” non richiesto e più discriminatorio che utile, che insinuerebbe che le donne non possono farcela con le loro sole forze.

Dal mio punto di vista, non è così. Le quote rosa esistono perché le donne hanno tutte le carte in regola per conquistare i posti che vogliono in una gara equa, ma nel contesto italiano spesso la gara non è equa. Lo hanno dimostrato i numeri della pandemia: il 99% dei posti di lavoro persi erano di donne. Difficile pensare che sia solo una triste casualità.

In Italia una donna su due non lavora. E quelle che lavorano incontrano innumerevoli ostacoli. Si inizia con la classica, orribile domanda “vuole avere dei figli?” ai colloqui di selezione e poi si continua con stipendi inferiori e soffitti di cristallo. A ciò si aggiungono poi alcuni stereotipi ancora radicati: che alcuni lavori non siano adatti alle donne, che le donne siano meno competenti degli uomini in certi mestieri.

La politica, ad esempio, è stata a lungo considerata roba da uomini. Molti pensavano (e qualcuno lo pensa ancora) che le donne fossero troppo sensibili per questo mondo di forte contrapposizione. Senza le quote rosa, forse le donne in politica sarebbero ancora meno.

Conclusione: sì, le quote rosa servono

In un paese ideale, le quote rosa non servirebbero. Basterebbero le competenze, il merito indipendentemente dal genere. Ma l’Italia non è un Paese ideale. Ricapitolando: il 50% delle donne non lavora (approssimando per difetto), il 99% dei posti persi a causa del Covid erano di donne, gap salariale e soffitti di cristallo sono ancora perfettamente integri, soprattutto in alcuni settori tradizionalmente maschili. In questo contesto, le quote rosa secondo me possono aiutare. L’obiettivo, però, dovrebbe essere renderle inutili nei prossimi decenni, ma la strada sembra ancora lunghissima.

S.B.

san valentino 2021

San Valentino 2021: abbiamo bisogno di questa festa?

San Valentino 2021. Quest’anno la festa degli innamorati è, per forza di cose, un po’diversa . Con i ristoranti chiusi a cena, la maggior parte degli hotel fuori gioco e i divieti che fioccano come le mine nel vecchio gioco “Prato fiorito”, i nostri piani hanno dovuto subire un certo ridimensionamento. La cena romantica è diventata pranzo, il weekend fuori porta si è trasformato in una gita nella città limitrofa (o nella propria, nelle regioni arancioni). Sono rimasti i fiori e i cioccolatini, per la gioia di chi li vende e di chi, come la sottoscritta, usa la cioccolata come carburante.

Ma perché facciamo tutto questo? Mi è capitato di vedere, sui social, un post che chiedeva: “Se i single odiano san Valentino e i fidanzati dicono di non averne bisogno, a che serve san Valentino?”. Domanda lecita.

Perché san Valentino?

Alle origini della festa

Bazzicando su Google si trovano spiegazioni interessanti sull’origine di questa festa. Sul sito di Focus c’è un articolo (link in fondo) che sostiene che la ricorrenza di san Valentino sia nata per sostituire i lupercalia. Questi riti pagani, ancora diffusi nella tarda età romana, si svolgevano il 15 febbraio, e prevedevano festeggiamenti sfrenati. Per l’occasione, pare che uomini e donne corressero nudi per strada. Decisamente troppo per Papa Gelasio I. Il pontefice, contrariato, avrebbe deciso di stroncare questa usanza creando una festa dell’amore (cristianamente inteso) il giorno precedente. San Valentino, per l’appunto.

Di storie se ne trovano anche altre, ma oggi è la natura commerciale della festa a renderla protagonista.

San Valentino 2021, una questione economica

Che la festa degli innamorati sia un enorme affare lo abbiamo visto più che mai con questo san Valentino 2021. Le regioni arancioni hanno dovuto rinunciare al pranzo al tavolo e i ristoratori se la sono presa (e nemmeno poco). Il loro non è chiaramente un problema di romanticismo, ma di conti. Che fare di tutti gli ordini effettuati e delle tante prenotazioni per questa giornata? Quest’anno san Valentino viene pure di domenica, il che significa che, in tempi normali, ci sarebbero weekend romantici sold out in hotel, spa e simili, i ristoranti pieni. Più tutti gli acquisti di cioccolatini, fiori, gioielli e altri regali.

San Valentino non è come Natale o Pasqua, due feste che hanno ormai un enorme giro di denaro ma di cui tutti, bene o male, conosciamo senso e origine. Dei due o tre santi di nome Valentino molti di noi non sanno nulla. Se ci chiedono qualcosa andiamo a cercare su Google “storia di san Valentino”. Eppure, lo prendiamo come un giorno diverso. Un’occasione per andare a cena fuori o per fare un regalo al partner. Se si chiamasse san Federico o san Saverio, probabilmente per noi non cambierebbe molto.

Ma arrivando al dunque, abbiamo bisogno di questa festa? La mia risposta è “ni“. Non ci serve una festa per ricordarci del nostro partner (si spera), ma in fondo è una ricorrenza come altre. Abbiamo anche una giornata della Nutella, una giornata del gatto, una dei calzini spaiati. Possiamo avere anche una giornata degli innamorati. E poi, il bisogno è relativo. Se chiedo al fioraio all’angolo, lui sicuramente dirà che san Valentino gli serve.

S.B.

Leggi anche: San Valentino festa degli innamorati: perché? (Focus)

Leggi anche: Vigilia di Natale 2020, pensieri su un Natale “sobrio”

Grease

Grease accusato di sessismo, chi ha ragione?

Qualche giorno fa la BBC ha mandato in onda Grease, il classico con John Travolta e Olivia Newton-John. Tuttavia, la trasmissione del film non ha soddisfatto tutti. Anzi, alcuni telespettatori hanno chiesto, tramite i social, che non venga più riproposto. La polemica, che si è infiammata soprattutto tra i giovani, ha per bersaglio alcune parti del musical, ritenute stereotipate o inopportune al punto che Grease è stato accusato di sessismo.

Le scene maggiormente criticate sono quelle che coinvolgono Putzie, un amico del protagonista Danny, che guarda sotto le gonne delle ragazze, e il presentatore radiofonico Vince Fontaine che, in occasione del ballo, invita con una battuta a formare solo coppie uomo-donna. Poi la trasformazione finale di Sandy da ragazza acqua e sapone a “pantera” e un passaggio della canzone Summer Nights, definito “rapey” (che incita allo stupro).

Inutile dire che il mondo del web si è subito spaccato tra i fan di Graese, che difendono il loro mito a spada tratta, e gli altri. Il risultato è stato una delle solite discussioni (virtuali) tra sordi, tra due schieramenti che non vogliono sentire l’uno le ragioni dell’altro.

Bene, io non sono una fan di Grease. L’ho visto (in casa abbiamo anche il dvd), ma non mi ha mai conquistato. Anzi, quando a dieci anni mi sono ritrovata a ballare You are the one that I want, con addosso una gonna plissettata, alla recita di fine anno, volevo sotterrarmi. Sarà che mi sono sempre sentita troppo poco Sandy…

Non ho, quindi, quell’affetto che spinge gli appassionati a difendere Grease ad ogni costo. Al contrario, alcune critiche le comprendo. Quello che invece non condivido è il processo alla storia, ma andiamo con ordine

La scena con Putzie che si sdraia sotto le panche per guardare le mutande alle ragazze è inopportuna? Nel 2021, magari sì. La battuta di Vince Fontaine è fuori luogo? Nel 2021, forse sì. La trasformazione di Sandy in panterona sexy promuove un’immagine stereotipata della donna? Per noi, probabilmente sì. Perché abbiamo conosciuto la body positivity e non siamo più così inclini a cambiare radicalmente noi stesse per il Danny Zucco di turno. Qualcun altro dirà che Sandy “ha solo imparato a valorizzarsi”… Punti di vista.

Poi, la canzone. In Summer nights compare la frase “Did she put up a fight?” (“lei ha lottato?”) che noi italiani abbiamo sempre ignorato. Ci è sempre sfuggita. Ma se sentissimo, in una canzone che racconta di una notte d’amore, “lei ha provato a liberarsi?”, “lei ha fatto resistenza?”, non penseremmo a qualcosa di non del tutto consensuale? Probabilmente ci colpirebbe, come Summer nights ha colpito alcuni giovani inglesi.

Detto tutto questo, Grease può anche essere accusato di sessismo, ma a che scopo? Si tratta di un film uscito negli anni Settanta e ambientato negli anni Cinquanta, quando la società era molto meno inclusiva. Il nostro passato è sessista, omofobo e razzista. Ma non si può processare il passato. Quella contro Grease è una polemica che può essere condivisa o meno, ma che non serve a molto. Il vero scandalo sarebbe veder uscire, quando i cinema riapriranno, nuovi film con scene come quelle contestate a Grease.

S.B.

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Amen e Awoman? Una gaffe dall’America

Tutto nasce da una preghiera. Il pastore Emanuel Cleaver, di Kansas City (USA), è un membro del Congresso americano, eletto con il partito democratico. In occasione dell’apertura dei lavori del Congresso, Cleaver pronuncia una preghiera e la conclude aggiungendo al classico “Amen” un insolito “A-woman“.

Linguisticamente, è una gaffe bella e buona. Una castroneria paragonabile alle molte dei nostri politici, come “il Pil cresce dove fa caldo” di Barbara Lezzi, per intendersi. “Amen“, infatti, è una parola ebraica che significa “e così sia”. Impossibile, quindi, sostituire quel “men” con “woman”. Attenzione, però, a liquidare la cosa come una stravaganza di uno squinternato sinistroide.

La lingua (l’inglese come le altre), infatti, a volte solleva problemi di genere e di inclusività. Basti pensare all’eterna disputa sui femminili in italiano (“ministra suona male”) o alla questione del maschile esteso (si usa il maschile per i gruppi misti di maschi e femmine, ad esempio) che ha portato qualcuno a chiedersi: “la lingua è sessista?“. La lingua, di per sé, non può essere sessista, semplicemente perché non ha potere senza qualcuno che la usi. Chi usa la lingua, lui (o lei) sì, può essere sessista e tradurre il sessismo in un determinato modo di esprimersi. Non è un caso che, ad esempio, in alcuni ambienti accademici o istituzionali adesso si raccomandi di includere il femminile: “buongiorno a tutte e a tutti”, “cari concittadini e care concittadine”.

Le intenzioni del pastore Cleaver, dunque, non sono da condannare a priori. Voleva comunicare un messaggio progressista, peraltro in linea con l’intenzione del suo partito di rivedere il linguaggio dei documenti congressuali, ma ha osato troppo in un campo rituale come la religione (se anche la sua modifica fosse stata etimologicamente corretta, i conservatori avrebbero lo stesso gridato allo scandalo). In più, ha sbagliato parola. Se al posto di “Amen” avesse scelto “manpower“, per dirne una, il discorso avrebbe avuto un senso: “manpower” significa “manodopera” e si potrebbe convertire in “humanpower“, includendo così anche le donne e allontanando l’idea che la manodopera debba essere innanzitutto maschile.

In conclusione, alla sottoscritta sembra troppo crudele il commento di Massimo Gramellini che, sul Corriere della sera, ha definito Cleaver “il primo cretino dell’anno”, ma “A-woman” proprio non trova una sua ragion d’essere. Peccato.

S.B.

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vigilia di natale 2020

Vigilia di Natale 2020, pensieri su un Natale “sobrio”

Vigilia di Natale 2020 | Siamo arrivati al 24 dicembre, il che significa che tra una settimana “il peggior anno di sempre”, come il Time ha definito il 2020, sarà terminato. Prima però ci sono le feste. “Sobrie“. come ci ripetono da settimane, ma esattamente che significa?

Non so voi, ma io all’aggettivo “sobrio” ho sempre associato un tono leggermente moralistico. Non esagerare, non farti notare, non ostentare. Sii sobrio, appunto. E tra sobrio e anonimo, il confine a volte è labile. Solo che sobrio è positivo, socialmente accettato e, anzi, encomiabile, anonimo no. Se sei sobrio con ogni probabilità sei, agli occhi degli altri, una persona che tiene un basso profilo ma con eleganza. Se sei anonimo, semplicemente non hai niente di speciale. Questo Natale è stato proclamato sobrio forse per coprire quanto sia in realtà anonimo?

Niente cenone della vigilia, niente pranzo di Natale, niente festa alcol, amici e assembramenti per Capodanno. Tutti sul divano a guardare il Grande fratello Vip con i conviventi, cercando di valutarne il grado di trash. Per necessità, naturalmente. Il classico ritrovo con nonni, zii e company sarebbe oggettivamente troppo rischioso, anche se le mille deroghe alla “zona rossa delle feste” confondono le acque. Sembra di stare davanti a uno di quei problemi delle prove Invalsi, con un trabocchetto a ogni riga. Tre persone con più di 14 anni che si spostano insieme, no. Due con più di 14 anni e una di 13 anni e 364 giorni, sì. Ma se quattro persone con più di 14 anni prendono due macchine diverse?

Un Natale, dunque, (in teoria) sobrio nei numeri. Un’altra storia sono i contenuti. In tv e sui social si rincorrono gli inviti al raccoglimento spirituale e a sfruttare queste feste sottotono per allontanarci dal consumismo sfrenato degli ultimi quarant’anni. Il tono è quasi quello della predica e rieccolo, quel pizzico di moralismo che segue l’idea di sobrietà. Sembra la versione natalizia di quel “ne usciremo migliori” che illuse mezza Italia in primavera. Ma se regaleremo ai nostri amici delle tristissime candele, rigorosamente pagate con la carta per avere il cash-back, sarà solo perché non siamo tutti statali e in questi mesi abbiamo lavorato poco e male.

Difficile che dopo mezzo secolo di consumismo “all’americana” diventiamo tutti alfieri della vita frugale. I grandi centri commerciali ieri erano ancora pieni, come le vie dello shopping e i ristoranti giapponesi. A qualche strada di distanza da casa mia, due abitazioni gareggiano sulle luci natalizie come Betty Lou e Martha May ne Il Grinch: una ha anche una finta renna con slitta sul tetto. Ma sarà un Natale sobrio.

Qualcuno dice che, dopo la pandemia, dobbiamo cambiare, che dobbiamo rallentare. Mi permetto di guardarlo con scetticismo. Vogliamo rallentare, ma abbiamo accelerato anche i tempi della scienza pur di avere, per questa vigilia di Natale 2020, un Santa Claus distributore di vaccini surgelati. Forse sarebbe più onesto dire che vogliamo tornare alla vita che avevamo, anche se era frenetica, consumistica e a tratti individualistica. Io, se fossi il 2021, avrei già una terribile ansia da prestazione. Buone feste a tutti.

S.B.

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Maestra d’asilo licenziata: il danno, la beffa e la giustizia

Maestra d’asilo licenziata | Inizia tutto con alcune foto. Nel 2018 una donna invia al fidanzato degli scatti e un video che la ritraggono senza vestiti, in pose provocanti. Poi la storia finisce, ma il materiale resta in memoria. Il ragazzo lo inoltra ad alcuni amici del calcetto e, da una chat all’altra, i contenuti incriminati arrivano sotto gli occhi della moglie di uno di loro. Il tutto si sarebbe potuto concludere con una classica lite coniugale, se la donna non avesse riconosciuto la maestra d’asilo del figlio. Apriti cielo. Fulmini e saette. Orrore. La moglie dell’amico allerta altri genitori, parte la solita macchina del fango. La maestra viene licenziata (o meglio, spinta a dimettersi) dalla direttrice scolastica.

Oltre al danno oltre la beffa, insomma. Non solo una vede gravemente violata la propria privacy, ma deve pure lasciare il lavoro. Come se non fosse vittima di un torto,ma colpevole di qualcosa. Ma di cosa, esattamente? Questa storia, attraverso i suoi protagonisti, suggerisce alcune considerazioni sparse:

  1. l’ex fidanzato, che ha diffuso il materiale senza il consenso della donna, non ha commesso una goliardata o una “ragazzata”, ma un reato. Il revenge-porn, infatti, dal 2019 è un illecito a tutti gli effetti e si configura come la diffusione di materiale sessualmente esplicito senza il consenso delle persone coinvolte. Che abbia mandato il video solo sulle chat del calcetto, per vantarsi con gli amici, anziché caricarlo su PornHub, non cambia la sostanza.
  2. per quelli del “se l’è cercata“, “ha sbagliato a mandare quella roba”: fidarsi può rivelarsi una scelta sbagliata ma non è un reato, diffondere senza consenso invece sì.
  3. far circolare le foto di una ex come si potrebbero scambiare le figurine Panini, è francamente agghiacciante.
  4. la moglie dell’amico che semina zizzania tra i genitori, anziché chiedersi perché il marito abbia sul cellulare determinati contenuti, dovrebbe rivedere le sue priorità.
  5. una maestra non può essere improvvisamente inidonea perché qualcuno ha diffuso senza il suo consenso un video hard, privato. Più che un problema di idoneità, questo è un problema di ipocrisia: si vuole la donna immacolata, che si guarda bene dal far sapere che ha una vita sessuale. Ma ai bambini non sarebbe cambiato niente (girare un video osé non è certo un sintomo di pedofilia o pericolosità), soltanto i genitori (più infantili dei figli) si sarebbero trovati a disagio, come se non avessero mai visto niente di simile. Senza contare che, se ne video ci fosse stato un uomo, si sarebbero fatti solo una bella risata.

A due anni di distanza dai fatti, la giustizia sta facendo il suo corso: la ragazza ha ottenuto un risarcimento dall’ex compagno, mentre la direttrice dell’asilo e la moglie dell’amico sono sotto processo per diffamazione. La giustizia, dunque, sta lavorando, anche se resta l’amarezza per una maestra d’asilo licenziata non si capisce bene per cosa.

S.B.

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Jack Frusciante è uscito dal gruppo

Jack Frusciante è uscito dal gruppo, a scuola con Alex

Settembre è il mese del rientro a scuola e il protagonista di questo appuntamento de Il personaggio del mese, che arriva in ritardo perché a “scuola” (vale, questa parola, per l’università?) ci è dovuta tornare anche la sottoscritta, non poteva che essere uno studente. Lui si chiama Alex D. ed è il protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994) di Enrico Brizzi.

Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Alex e il liceo

Alex, all’anagrafe Alessandro, ha 17 anni e mezzo ed è stato per gran parte della sua carriera scolastica uno studente modello. Poi, la lettura di un libro lo ha folgorato, aprendogli gli occhi sull’ipocrisia e il conformismo dei compagni e dei professori. Di qui, la ribellione: Alex e i suoi amici saltano le lezioni, si vestono in modo trascurato, si tagliano i capelli un po’come capita, si definiscono anarchici. Il loro obiettivo? Distinguersi dagli altri studenti che ai loro occhi sono i classici figli di papà con i capelli in ordine e la polo griffata.

La ribellione, però, diventa emarginazione: Alex e gli altri vengono isolati, ma interpretano la loro solitudine come un ulteriore segno di distinzione. Alex si vede circondato da studenti-zombie che “ti guardano male se alzi la testa, se esci dal gregge” come Jack Frusciante è uscito dal gruppo.

La scuola come “pollaio”

Il liceo di Alex (il Caimani di Bologna) appare ai suoi occhi come una sorta di “pollaio” dove si misura il grado di omologazione degli studenti. Si insegna, in pratica, che chi esce dal gruppo è perduto, come Jack Frusciate che ha lasciato i Red Hot Chili Peppers ed è caduto nel dimenticatoio.

Gli adulti della scuola non sembrano migliori degli studenti, anzi. Tra madri petulanti, la cui unica preoccupazione è la reputazione delle figlie, e insegnanti insoddisfatti, gli stimoli per Alex sono vicini allo zero. Per lui la scuola è una replica, i piccolo, del mondo, con tutte le sue meschinità. E con la professoressa Ciuncoli, “zitella”, che sfoga la sua frustrazione per essere stata esclusa dall’insegnamento universitario decidendo quali studenti aiutare e quali punire. Sarebbe bello dire che tutto questo è solo la fantasia di uno studente poco brillante, che dagli anni Novanta a oggi è tutto cambiato, che Jack Friusciante è uscito dal gruppo è solo una commedia, ma pochi di noi ci crederebbero.

Se Alex avesse sperimentato la DAD (didattica a distanza), probabilmente avrebbe dormito per la maggior parte del tempo, protetto dalla webcam spenta. Le interrogazioni, le avrebbe boicottate adducendo problemi di connessione. Se gli avessero dato un banco con le rotelle, lo avrebbe usato per fare una gara di velocità nel corridoio.

Alex e Aidi, una storia a tempo

Fuori dalla scuola Alex si sente molto più libero. A studiare a mala pena ci pensa, preferisce andare in bici o uscire con le ragazze. Per lui, infatti, non vale la pena di sacrificare un momento di felicità presente per un futuro da piccolo borghese con una macchina in garage, una moglie infedele e molti rimpianti. I tanti obiettivi che gli adulti vorrebbero imporgli gli sembrano sostanzialmente inutili. Presente batte futuro, insomma.

Nell’eterno presente di Alex irrompe Aidi (Adelaide), per la quale Alex prende una bella cotta. Così il nostro protagonista, che con gli amici pretende di fare il duro, inizia progressivamente a cedere. Ma Aidi partirà per gli Stati Uniti alla fine dell’anno scolastico e resterà lì per tutta la quarta superiore. La loro, dunque, è una storia a tempo. Di nuovo, Alex vive solo nel presente. Il futuro non trova spazio né programmazione nemmeno con Aidi.

S.B.

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computer e block notes, didattica a distanza

Didattica a distanza, apologia della DAD

La didattica a distanza (DAD) spesso ci ha fatto schifo. La connessione si interrompeva, i nostri compagni erano dei pallini colorati, i microfoni gracchiavano, i commenti non si caricavano. Poi, gli insegnanti: c’era quello che vedeva imbrogli ovunque (non sempre a torto), quello che sforava di 15 minuti il suo tempo, quello che non aveva mai usato una webcam nella sua vita. La didattica a distanza, innegabilmente, ci ha complicato la vita. Ma, d’altra parte, avevamo alternative durante il lockdown? La DAD, inoltre, ha innescato un domino di cambiamenti che forse varrebbe la pena di sfruttare anche a emergenza finita.

Didattica a distanza, emergenza o futuro? Pro e contro della scuola online

Le molte disuguaglianze della DAD

Lo spostamento improvviso e inaspettato della scuola online ha fatto emergere, amplificandole, molte disuguaglianze. Disuguaglianze tra scuole (o università) diverse, ma anche tra i singoli studenti. Tra chi aveva lezioni programmate con continuità, con il docente in diretta, e chi sporadici video registrati e mandati per email. Tra chi disponeva di un computer di ultima generazione e chi sul momento si è dovuto accontentare di un vecchio pc con la telecamera rotta. Si è parlato di “digital divide“(qui per approfondire) e di dis-umanizzazione della scuola. Tutto questo, innegabilmente, è vero.

Compagni e computer, solo un deficit di umanità?

Con un computer non puoi socializzare, il che rende la didattica a distanza irrimediabilmente inadatta agli studenti della scuola materna ed elementare. Ma anche per gli alunni delle medie e delle superiori: chi di noi sarebbe sopravvissuto (più o meno) indenne senza il suo compagno di banco? Con un computer non puoi neanche litigare, scambiare gli appunti o giocare a calcetto. Non puoi fare, insomma, tutte quelle esperienze che rendono gli anni della scuola formativi. L’università, però, è un’altra storia.

Molti corsi universitari sono frequentati da centinaia di studenti e, pur con alcune eccezioni, non si formano delle vere classi. Ognuno costruisce una sua rete di colleghi con cui studia e si confronta, ma è un rapporto molto diverso. Il percorso è più individualistico, più vario anche, soprattutto nelle facoltà umanistiche che consentono di scegliere buona parte delle materie da seguire.

Inoltre, ad affacciarsi all’università sono individui ormai adulti (o quasi), ragazzi di 19 anni che votano e mandano la macchina. Quindi persone che, pur soffrendo la mancanza dell’aperitivo in piazza o della pausa caffè con i colleghi, possono affrontare meglio periodi di didattica a distanza.

Università a distanza, università più equa?

Può sembrare contro-intuitivo, ma se la didattica a distanza diventasse strutturale, gli studenti più svantaggiati potrebbero trarne vantaggio.

Se le lezioni fossero accessibili anche da remoto, infatti, uno studente potrebbe iscriversi a un’università molto distante da casa sua senza necessariamente doversi sobbarcare l’onere di un affitto per tutto l’anno. E chiunque abbia provato a cercare, anche solo per curiosità, un banale posto letto a Bologna o a Milano sa che questo non sarebbe poco. A Bologna, ad esempio, ci si può considerare fortunati a trovare un posto in stanza condivisa a 250 euro al mese, spese escluse. Poter seguire i corsi da casa, raggiungendo la città universitaria solo per alcune settimane o mesi, per sostenere gli esami o partecipare a laboratori e attività pratiche, potrebbe essere una valida alternativa.

Alcune università, inoltre, come l’Alma Mater Studiorum di Bologna, hanno comprato in questi mesi molte apparecchiature innovative (microfoni wireless, sistemi di autotracking per seguire il docente nei suoi spostamenti in aula, lavagne interattive) che sarebbe uno spreco relegare in soffitta a emergenza finita.

Qualcuno, a questo punto, dirà “e i rapporti umani? e lo spritz con gli amici?”. La verità è che molti universitari li sacrificano già: i pendolari con i treni sempre in partenza, gli studenti-lavoratori con i turni da incastrare con le lezioni, i fuorisede con la bolletta in scadenza il giorno dopo. A potersi sedere assiduamente davanti a un aperitivo rilassante, fuori dall’aula, sono pochi fortunati.

Conclusioni. Didattica a distanza sì o no?

La didattica a distanza, dunque, se organizzata bene (condicio sine qua non) potrebbe migliorare un’università italiana ancora analogica e novecentesca. La vera sfida sarà integrarla a emergenza conclusa. Per gli altri gradi di istruzione, meglio tornare a rubarsi la merenda a ricreazione.

S.B.

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Stargirl cover

Stargirl, storia di una Diversa al liceo

Stargirl Caraway si fa subito notare, nella sua nuova scuola, perché è diversa da qualsiasi altro studente. Leo Borlock e il suo amico Kevin pensano di inserirla nella tv scolastica, per fare audience, ma le cose si complicano. Nel grigio istituto dell’Arizona dove Jerry Spinelli ambienta Stargirl (2000), non c’è posto per la stravaganza.

Stargirl, un’aliena con l’ukulele

Il vero nome della ragazza nuova che porta scompiglio al liceo di Leo è Susan, lei però preferisce farsi chiamare Stargirl. Indossa vestiti strambi, spille pacchiane, abiti da pellerossa o bretelle maschili sopra pantaloncini rossi. Si acconcia i capelli biondicci in due treccine e arriva in classe con le guance sporche di rossetto e alcune lentiggini disegnate. Truccare, non si trucca, non nel senso classico del termine almeno. Al posto dello zaino ha una sacca e un ukulele che usa per cantare davanti a tutti, in classe e durante la pausa pranzo. Se qualcuno compie gli anni, lei gli canta “Buon compleanno”, ma nessuno apprezza. Nella sacca tiene un topo come animale da compagnia. Sul suo banco mette sempre un vaso cin una margherita.

La “teoria Hillari”

Nel giro di un paio di giorni, tutti i compagni di Stargirl la considerano una pazzoide. Dal loro punto di vista deve essere matta, oppure un’imbrogliona. Hillari Kindle sostiene una sua ipotesi, che rimbalza di bocca in bocca come “teoria Hillari”: Stargirl deve essere un’infiltrata della CIA, un’attrice. L’ipotesi prende campo, insieme a molte altre, perché la nuova arrivata sembra a tutti troppo stramba per essere reale. Così qualcuno comincia a pensare che viva su un autobus o in una città fantasma ai confini della civiltà, qualcun altro che sia figlia di due stregoni. Solo Leo intuisce che Stargirl, in realtà, è più autentica di tutti gli altri. Ma proprio per questo è destinata alla sconfitta.

« Meglio per lei che sia fasulla»

«Perché?»

«Perché, se è reale, è nei guai. Quanto pensi che una realmente così possa durare da queste parti?»

Kevin a Leo

Stargirl e Susan

La popolarità è una bestia volubile e Stargirl, per un breve periodo e contro ogni previsione, sembra conquistare il favore dei suoi compagni. Vince una competizione scolastica di eloquenza, gli stessi che l’hanno derisa al suo arrivo iniziano a imitare il suo stile e a comprare un ukulele. Leo scopre di avere un debole per lei. Ma è un’illusione fugace.

Dopo una gara finita a pomodori in faccia, l’astro Stargirl declina definitivamente. Persino Leo non riesce a sopportare l’emarginazione della sua ragazza e lei, per rimediare, abbandona i panni di Stargirl e diventa Susan. Si veste in modo normale, anonimo, si trucca come le altre, smette di suonare l’ukulele. Tutto questo, però, la rende profondamente infelice.

Essere se stessi o essere accettati

Stargirl non riesce a mantenere i panni della banale Susan e sceglie la fuga. Lascia il liceo di Leo, dove l’omologazione fa da padrona, e sceglie di essere se stessa. Non è un lieto fine, perché la diversità perde ed è sopraffatta dalla mediocrità, la storia tra Stargirl e Leo naufraga. Ma è una vittoria personale di Stargirl che tra il quieto vivere e se stessa sceglie se stessa. È una Diversa e non vuole cambiare.

S.B.

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discoteche

Discoteche chiuse, (non) tutta colpa dei Millennial

Discoteche chiuse, la stretta inevitabile

Discoteche chiuse fino al 7 settembre, poi si vedrà. Questa è la decisione che il Governo ha preso alla luce dell’aumento dei contagi da Covid-19. I gestori dei locali, naturalmente, sono scontenti, ma il provvedimento era prevedibile.

Una discoteca, infatti, è per sua natura avversa al mantenimento della distanza. Si possono contingentare gli ingressi, ma il senso di una serata in discoteca per i giovani resta ballare, bere qualche drink, saltare sotto il palco del dj, stare insieme. Se in un locale ci fossero anche solo duecento persone, forse finirebbero per assembrarsi lo stesso. La musica a tutto volume e le luci laser dei locali non incitano un diciottenne a cercare di calcolare i metri che lo separano dal suo vicino, neanche a pensarci. A livello sanitario, dunque, la scelta migliore sarebbe stata quella di non riaprire affatto le discoteche. Far saltare l’intera stagione tenendo le discoteche chiuse, però, come è facile immaginare, sarebbe stato economicamente disastroso.

Giovani e discoteche, tutta colpa dei Millennial?

A frequentare le discoteche sono in netta prevalenza gli under 30. Questo non è un mistero. E proprio loro, i giovani, sono gli osservati speciali di questi giorni di nuovi contagi. I giovani che si assembrano nei locali, che hanno fatto le vacanze all’estero, che, nelle parole degli adulti, non sanno divertirsi senza eccedere. Così si leggono, sui giornali come sui social, discorsi più o meno paternalistici che trasudano nostalgia dei tempi andati e biasimo per questi Millennial che cercano lo sballo a ogni costo. Ma siamo sicuri che sia tutta colpa dei più giovani?

Genitori e figli, a ognuno le sue responsabilità

Il fatto è che questi ragazzi qualcuno li ha cresciuti. Qualcuno, in modo diretto o indiretto, ha lasciato passare il messaggio che per divertirsi serve fare after e andare a 500 chilometri da casa. Qualcuno ha dato ai 700 ragazzi che la settimana scorsa erano al Seven Apples (Versilia, Toscana) il permesso di andarci, con una pandemia in corso e la consapevolezza che si tratta di una delle discoteche più frequentate della regione. Qualcuno ha pagato i viaggi a Malta o in Grecia. Però delle responsabilità dei genitori non ho ancora sentito parlare. Indubbiamente è più facile ripararsi dietro la storia dei “giovani d’oggi” irresponsabili (ma un giovane, di qualsiasi epoca, lo è quasi per definizione) e spiantati.

Altrimenti si dovrebbe riconoscere che c’è una generazione di quarantenni e cinquantenni che non sa dire di no ai figli minorenni (o maggiorenni non autosufficienti) e non sa dialogare con quelli più grandi.

Il puzzle delle responsabilità, dunque, è più complicato di quel che sembra. Noi ragazzi, nella nostra quotidianità, volevamo andare in discoteca e vedere il mondo. Così appena i toni sono diventati rassicuranti, quella quotidianità ce la siamo ripresa. Forse è stata una reazione ingenua, magari anche egoista (chi di noi ha pensato ai nonni ultrasettantenni, probabilmente al Seven Apples non c’è andato), ma ci hanno parcheggiato per mesi a scrivere “Andrà tutto bene” sulle finestre e alla fine ci siamo cascati. La prudenza doveva arrivare (anche esserci imposta, se necessario) dagli adulti, ma poi li vedevamo in giro a dire che il Coronavirus non esiste, con le mascherine al braccio a mo’di braccialetto.

Discoteche chiuse, è un fallimento generazionale?

Gli eventi degli ultimi giorni forse sono un fallimento. Di una comunità che non riesce a seguire le regole, che non pensa ai più deboli, senza dubbio. Anche un fallimento generazionale? Se lo è, non di una sola generazione.

S.B.

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catcalling isn't cute. Stop catcalling

Che cos’è il catcalling? Una petizione chiede che sia reato

Che cos’è il catcalling?

Per sapere che cos’è il catcalling, bisogna intanto prendere un dizionario bilingue. Il termine inglese catcall significa “fischio” o, quando è utilizzato come verbo, “fischiare (qualcuno)”, solitamente in pubblico (Sansoni Inglese). In senso lato, dunque, anche “infastidire” (WordReference).

Da catcall, quindi, catcalling. Questa parola è recentemente comparsa anche in Italia (ma il Vocabolario Treccani online non l’ha ancora indicizzata) per indicare i numerosi apprezzamenti non richiesti (fischi, frasi inopportune, strombazzate di clacson) che le donne ricevono semplicemente camminando in strada.

Fischi e colpi di clacson, una legge può funzionare?

Su Change.org è nata una petizione dal nome “WannaBeSafe – Italia” che conta al momento circa 10mila firme e chiede al Parlamento italiano di rendere il catcalling un reato. Ma una legge sul catcalling funzionerebbe?

Fischi e colpi di clacson arrivano, nella stragrande maggioranza dei casi, da sconosciuti. Una ragazza sta tornando a casa e si sente fischiare da qualcuno, oppure un passante abbassa il finestrino della sua auto per rivolgerle parole indiscrete. Per identificare (e punire) questi episodi, la ragazza dovrebbe avere la possibilità e la prontezza di annotare la targa della macchina, o di memorizzare i volti dei disturbatori. E non è scontato che ci riesca, soprattutto se è buio e i responsabili si dileguano in fretta. Dal punto di vista pratico, dunque, una legge sul catcalling incontrerebbe varie difficoltà di applicazione, a meno che, fortuitamente, una pattuglia delle forze dell’ordine non si trovi sul posto. Questo, però non significa che sarebbe del tutto inutile.

Che cos’è il catcalling? Un problema di cultura

Una legge che riconosce come reato il catcalling sarebbe, pur con le suddette difficoltà pratiche, un segnale. Significherebbe riconoscere che non è normale apostrofare una donna come si farebbe con un cane o un gatto (cat), a fischi. Non è normale gridarle proposte indecenti dall’abitacolo di un’utilitaria. Qui però sorge un problema, perché invece, purtroppo, per qualcuno è normale.

Non serve andare molto indietro nel tempo per trovare una conferma di ciò. Alla fine di giugno, infatti, lo psichiatra Raffaele Morelli, incalzato dalla scrittrice Michela Murgia, ha rilasciato alcune dichiarazioni ulla femminilità che hanno suscitato aspre polemiche. Ad esempio, Morelli ha detto che “se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi“. Se sei una donna e uno sconosciuto ti guarda insistentemente o ti fischia, dunque, va tutto bene.

Quello di Morelli non è un pensiero isolato. Non a caso, il grafico sottostante, condiviso sulla pagina Instagram di WannaBeSafe Italia, mostra come una percentuale molto alta di donne abbia avuto esperienza diretta di varie forme di catcalling. Da sinistra: sguardi insistenti, clacson, fischi, commenti sessisti, gesti volgari, commenti sessualmente espliciti, baci.

Alla luce di tutto questo, che cos’è il catcalling se non un problema di cultura? Una legge non potrebbe risolverlo alla radice, ma permetterebbe di riconoscerno per quello che è, un problema appunto, non un complimento.

S.B.

Clicca qui per visualizzare la petizione WannaBeSafe su Change.org

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strage di Bologna. 40 anni dopo. Comune di Bologna

Strage di Bologna, aspettare il treno 40 anni dopo

Il 2 agosto 1980 è passato alla storia come il giorno della strage di Bologna. Una bomba nella sala d’aspetto della stazione centrale, ottantacinque morti e duecento feriti. Un attentato nero, eseguito da Ordine Nuovo (organizzazione neofascista) con i soldi mandati da Licio Gelli (loggia massonica P2), stando alle ultime notizie diffuse dai media. Ma i mandanti? Mai individuati .

A quarant’anni di distanza, nella sala d’aspetto della stazione resta il segno della strage di Bologna. Ha la forma di una lunga targa commemorativa, che nelle giornate più tetre sembra una lapide collettiva, su cui si adagiano periodicamente fiori e corone. La targa è appesa al muro dove, nel 1980, c’è un armadio per i bagagli. Lì, in una borsa, è stata nascosto l’ordigno. La sala, distrutta dall’esplosione che ne ha fatto saltare il soffitto e almeno due pareti, è stata ricostruita quasi completamente. Solo un pezzo di pavimento sotto la targa è ancora originale: lì c’è un avvallamento più scuro, la forza della bomba ha lasciato la sua impronta.

Ricordare la strage di Bologna

Prima che il Covid-19 e lockdown stravolgessero la nostra quotidianità, io andavo ogni giorno a Bologna. Arrivavo alle 8,45 e poi stavo per un’ora in sala d’aspetto, a studiare, prima di iniziare il tirocinio. A febbraio, però, il mio studio era interrotto dall’arrivo di nutriti gruppi di studenti che entravano in massa, schiamazzando, e si fermavano davanti alla targa commemorativa. Solo allora facevano silenzio. L’insegnante, una professoressa che ricordo dai capelli grigi, raccontava la storia della strage di Bologna e, scorrendo l’elenco delle vittime, chiedeva agli studenti di chi volevano conoscere la storia. Io avevo dieci anni di più dei suo alunni, ma tutte le volte che la vedevo arrivare, circondata dai ragazzi, smettevo di studiare e mi mettevo ad ascoltare.

Iwao Sekiguchi, dal Giappone con il sogno dell’Italia

Iwao aveva 20 anni, studiava all’università nel suo Paese e aveva vinto una borsa di studio per un soggiorno a Firenze. Il 2 agosto 1980 si trovava a Bologna per incontrare una certa Teresa, forse un’amica, ma lei, come lui annota nel suo diario, non c’era. Iwao decide allora di comprare qualcosa da mangiare e di andare a Venezia, ma deve aspettare perché il primo treno utile è alle 11,11. La morte lo sorprende, a più di 9mila chilometri da casa, alle 10,25.

Rossella Marceddu, la moto e il bar

Rossella aveva 19 anni e rientrava con qualche giorno di anticipo da una breve vacanza al Lido degli Estensi (Ferrara). Doveva tornare in provincia di Vercelli, dove l’aspettava il fidanzato, e aveva pensato di fare il viaggio in moto. Tuttavia, su consiglio dei genitori che ritenevano la moto troppo pericolosa, aveva scelto il treno. E con il treno, per andare da Ferrara a Vercelli, bisogna cambiare a Bologna. Il 2 agosto 1980, quindi, Rossella si trova alla stazione di Bologna insieme a un’amica e decide di comprare qualcosa al bar, che si trovava vicino alla sala d’aspetto. Stava attraversando il sottopassaggio che portava al bar, quando l’esplosione l’ha travolta. L’amica, rimasta sul binario 4, si è salvata.

Strage di Bologna. Fermare il tempo, andare avanti

La strage di Bologna ha devastato decine di famiglie, spazzato via persone arrivate da tutta Italia e dall’estero. Molti giovani, anche. Chi era nella sala d’aspetto per una coincidenza persa, chi aveva deciso di cambiare meta o giorno di partenza. Casualità che, con il senno di poi, sembrano quasi un appuntamento con la morte. Per tutti loro il tempo si è fermato alle 10,25 del 1 agosto 1980, le loro foto in bianco e nero, incolonnate sui portali dedicati alla strage, non sono mai cambiate. Non sono mai invecchiati.

Il tempo è fermo anche per uno degli orologi della stazione, uno di quelli che si vedono da Piazza delle medaglie d’oro. Segna ancora le 10,25. Gli altri orologi della piazza, invece, funzionano. Per andare avanti, ma senza dimenticare.

La stazione di Bologna ogni 2 agosto torna teatro di una delle stragi più dure degli anni di piombo. Il tempo sembra riavvolgersi, ma, come un treno, poi riparte.

S.B.

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Piccole donne Alcott

Piccole donne Jo March,una scrittrice tra le massaie

Piccole donne‘ Jo March, una ribelle in famiglia

La famiglia March, protagonista del romanzo Piccole donne di Louisa May Alcott, è composta da sei persone: il signor March, soldato durante la guerra di secessione americana (1861-1865), la signora March e le loro figlie Meg, Jo, Beth e Amy.

Tra le ‘piccole donne’ Jo March è la più ribelle. Spesso scontrosa e irascibile, rifiuta il galateo che la società del tempo imponeva alle ragazze e prova una forte indisposizione per le trine, i merletti e i vestiti che invece la sorella Meg desidera ardentemente. I pochi vestiti di Jo sono semplici e bruciacchiati, perché lei ha la brutta abitudine di stare vicino alle candele. I suoi capelli sono sempre scarruffati e le sue mani macchiate di inchiostro. Ai balli di gala Jo preferisce le recite organizzate con le sorelle, alle feste gli spensierati giri nei campi con l’amico Laurie. Le amiche di Meg sognano una vita di agi da mogli di grandi signori, vita che nemmeno la stessa Meg disdegnerebbe, ma Jo no. Lei vuole essere indipendente.

I racconti di Jo, scrittrice donna in una società di uomini

Per aiutare la famiglia che versa in serie difficoltà economiche, Jo inizia giovanissima a sfruttare il suo più grande talento: la scrittura.

Scrive racconti e li vende a giornali che la pagano a colonne. Scrive quello che il pubblico cerca e accetta, seppur controvoglia, i tagli degli editori. Vorrebbe opporsi, ma il bisogno di denaro la frena. La scrittura le porta un discreto guadagno e questo fa sentire Jo realizzata, importante per la sua famiglia. Per le piccole donne Jo March è un sostegno indispensabile.

E che sia una donna a portare un’entrata non trascurabile, in una famiglia ottocentesca, è tutt’altro che comune. La consuetudine del tempo vorrebbe che una donna si dedicasse alla casa e ai figli, come fa Meg quando si sposa, per diventare una brava massaia. Questa prospettiva, però, lascia Jo atterrita.

Jo March, un personaggio ancora attuale

Tra le ‘piccole donne’ Jo March è quella a cui è più facile, nel 2020, sentirsi vicini. Orgogliosa, determinata e fuori dagli schemi, incarna quella forza d’animo che la rende, 150 anni dopo, un personaggio ancora vivo. Più difficile è rispecchiarsi nelle umili aspirazioni di Beth, che non desidera altro che restare vicina alla sua famiglia, o nelle speranze d’amore in stile ‘due cuori e una capanna’ di Meg.

Ma Jo è moderna anche perché subisce molte critiche. La sua stessa famiglia, pur con affetto, la considera un maschiaccio. Il suo essere così poco simile alle altre ragazze la rende, agli occhi di tutti, poco femminile e troppo selvaggia. L’idea condivisa dalle altre March è che Jo, pian piano, cambierà. Che smusserà il suo carattere e, come tutte, si sposerà e avrà dei figli. Jo, però, non è disposta ad accettare che, in quanto donna, l’amore debba essere la sua massima aspirazione. Le sta stretta la possibilità di un matrimonio con il ricco Laurie, che considera solo un amico, e nonostante la solitudine la metta a dura prova, lei vuole di più. Come pubblicare un romanzo e poi, ormai trentenne, fondare e dirigere una scuola.

Sono passati 150 anni dalle avventure di Jo, eppure capita ancora di sentir definire una ragazza ‘maschiaccio’, come se la femminilità fosse ferma all’idea ottocentesca di vestiti pieni di trine e sogni d’amore. E capita ancora, alle donne che scelgono di puntare sulla carriera, di sentirsi dire che cambieranno idea o che se ne pentiranno. Ma le donne, come Jo sa bene, non hanno solo un cuore. Hanno anche un’anima, delle ambizioni, dei talenti.

S.B.

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Venere di Botticelli

Chiara Ferragni agli Uffizi, storia di uno scontro tra culture

Quello che fa Chiara Ferragni fa notizia. Che vada a Gardaland o a New York, a mangiare il pesce o a fare shopping, tutto diventa di dominio pubblico. La sua stessa presenza è uno scoop e le persone ne parlano, che sia per idolatrarla o per demonizzarla. La recente visita di Chiara Ferragni agli Uffizi, dunque, non poteva che fare scalpore, ma non è finita qui. Quello che si è scatenato sul web, infatti, sembra un vero e proprio scontro tra culture.

Chiara Ferragni agli Uffizi, il post del direttore

La visita di Chiara Ferragni agli Uffizi è stata accompagnata da un post, apparso sulla pagina Instagram del museo fiorentino, che ha fatto molto discutere.

Nel post l’influencer lombarda è paragonata a Simonetta Vespucci, la donna che avrebbe ispirato la Venere di Botticelli. Apriti cielo. A molti il paragone deve essere sembrato semplicemente blasfemo. Ma il post (incorporato alla fine dell’articolo) dice anche altro. Analizziamolo prima di giudicare.

La Venere e Chiara Ferragni, due ideali di bellezza

Il post basa l’analogia tra Chiara Ferragni e la Venere di Botticelli sul concetto di bellezza. Entrambe, stando a quanto scritto sulla pagina degli Uffizi, incarnerebbero perfettamente l’idea di bellezza dei loro tempi e risulterebbero affini anche esteticamente. Infatti, si legge, l’ideale femminile della donna con i capelli biondi e la pelle diafana è un tipico ideale in voga nel Rinascimento

La bellezza rinascimentale, tuttavia, è profondamente diversa da quella contemporanea. Le donne di Botticelli, come la Venere che si intravede nella foto alle spalle di Chiara, propongono una femminilità morbida che, nella mentalità dell’Umanesimo, vuole essere simbolo di fecondità. Noi, al contrario, arriviamo da decenni di idolatria del fitness e dei corpi magri. Ve la immaginate la Venere di Botticelli a comprare su Amazon un trattamento detox e a farsi fare la schedina in palestra per scolpire gli addominali? 

Questo non significa che il Rinascimento trascurasse il corpo. Anzi, il detto mens sana in corpore sano (mente sana in corpo sano), di origine latina (Giovenale, Satire), diventa un vero e proprio pilastro dell’educazione rinascimentale. Ma si tratta di uno stile di vita improntato sull’equilibrio, che ha poco a che vedere con la nostra diet culture.

Il mito dell’influencer

Il paragone, fin qui decisamente forzato, prosegue tirando in ballo il mito. Come Simonetta Vespucci è stata fonte di ispirazione per Botticelli, così Chiara Ferragni incarna un mito per milioni di follower

Questo, oggettivamente, è vero. L’account Instagram di Ferragni conta oltre 20 milioni di follower e non c’è dubbio che il rapporto che si instaura tra alcuni fan, quelli più accaniti, e gli influencer sia molto simile all’idolatria. Persone che comprano quello che Chiara Ferragni indossa e promuove, che vorrebbero fare quello che lei fa. In questo senso, quindi, non è scorretto affermare che oggi l’influencer cremonese è  una sorta di divinità contemporanea (altro passaggio del post fortemente criticato). Divinità in senso lato, ovviamente, di una religione tutta terrena che corre sui social e influenza lo stile di vita dei suoi membri, o follower che dir si voglia. 

Chiara Ferragni agli Uffizi, benvenuta a Firenze?

Per difendere l’influencer dalle critiche è intervenuto, tra gli altri, il sindaco di Firenze Dario Nardella. Chiara Ferragni per lui è la benvenuta a Firenze, soprattutto in un momento così difficile per le città d’arte. 

Di altro avviso molte altre persone. Sotto il post degli Uffizi, infatti, le critiche non mancano. Il servizio fotografico di Ferragni nel museo rappresenterebbe uno smacco per la cultura italiana, costretta a svendersi per tirare avanti. Un’influencer non sarebbe un  personaggio adeguato a un tempio dell’arte. Ma l’arte non era un patrimonio comune?

Chiara Ferragni agli Uffizi sì, Chiara Ferragni agli Uffizi no, dunque. Sembra una delle solite polemiche da leoni da tastiera, invece è un vero scontro tra civiltà. Da un lato la cultura del web, che porta tutto (anche l’arte) sui social network, dall’altro la cultura tradizionale che considera il museo come una sorta di Pantheon, per pochi eletti adeguatamente preparati. Tra le due sembra aver avuto la meglio la prima e il direttore degli Uffizi, il tedesco Eike Schmidt, può festeggiare la buona riuscita della sua operazione di marketing:Libreriamo parla di un boom di visite nell’ultimo weekend, con un +27% di under 25.  . Il servizio fotografico di Chiara Ferragni agli Uffizi, dopotutto, ha avuto il suo effetto positivo, quindi viene da chiedersi: perché no?

Il post della discordia

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Ieri ed oggi … I canoni estetici cambiano nel corso dei secoli. L’ideale femminile della donna con i capelli biondi e la pelle diafana è un tipico ideale in voga nel Rinascimento. Magistralmente espresso alla fine del ‘400 da #SandroBotticelli nella Nascita di #Venere attraverso il volto probabilmente identificato con quello della bellissima Simonetta Vespucci, sua contemporanea. Una nobildonna di origine genovese, amata da Giuliano de’Medici, fratello minore di Lorenzo il Magnifico e idolatrata da Sandro Botticelli, tanto da diventarne sua Musa ispiratrice. Ai giorni nostri l’italiana Chiara Ferragni, nata a Cremona, incarna un mito per milioni di followers -una sorta di divinità contemporanea nell’era dei social – Il mito di Chiara Ferragni, diviso fra feroci detrattori e impavidi sostenitori, è un fenomeno sociologico che raccoglie milioni di seguaci in tutto il mondo, fotografando un’istantanea del nostro tempo. 🌍ENG: Beauty standards change in the course of time. The female ideal of a blonde- haired woman with diaphanous skin is a very common beauty model in the Renaissance. Masterfully expressed by the Florentine Sandro Botticelli in The birth of Venus maybe portraying the face of one of his contemporary, Simonetta Vespucci. A beautiful noble woman, of Genoese origin, beloved by Giuliano de’ Medici, the younger brother of Lorenzo the Magnificent ; she was so worshiped by Sandro Botticelli that she became his muse. Nowadays, Chiara Ferragni, born in Cremona, embodies a role model for millions of followers – a sort of contemporary divinity in the era of social media – The myth and the story of Chiara Ferragni, argued by harsh critics and supported by faithful fans, is a real sociological phenomenon that involves millions of supporter worldwide and it can undoubtedly be considered a snap-shot of our time.

Un post condiviso da Gallerie degli Uffizi (@uffizigalleries) in data:

S.B.

Nascite e morti in Italia 1862-2016

Calo demografico in Italia, si può invertire il trend?

Calo demografico in Italia, i dati Istat

L’ultimo rapporto dell’Istat sul calo demografico in Italia non lascia scampo: il 2019 ha segnato un nuovo record negativo dall’unità d’Italia. Dal 2015 abbiamo perso circa 550mila residenti tra cervelli in fuga all’estero e decessi superiori alle nascite. In pratica, in cinque anni è sparita una città come Genova (575mila abitanti), una come Messina (230mila abitanti) sarebbe scomparsa due volte. 

Questa era la situazione al 31 dicembre 2019. Poi è arrivato il Covid-19. Specialisti e meno specialisti hanno annunciato un nuovo picco negativo delle nascite nel 2021. Tra difficoltà economiche acuite dall’emergenza e 35mila morti a causa del virus, servirebbe effettivamente un miracolo perché il divario tra nascite e morti non si allarghi ancora nella direzione delle seconde.  

Ma il calo demografico in Italia non è colpa del Coronavirus, è una malattia pregressa. 

Meno nascite, è un bene o un male?

Basta navigare un po’sui social per accorgersi che i commenti sotto i post dedicati a questo argomento sono tutti simili tra loro. C’è chi prevede la fine dell’Italia (‘un Paese senza figli non ha speranze’), chi la butta sull’ecologia (‘il pianeta è già sovrappopolato, meglio avere bocche in meno’) e chi ne fa una questione ideologica (‘la famiglia non è più un valore’) e generazionale (‘le difficoltà c’erano anche prima eppure i figli si facevano’). 

Beh, prima di essere un bene o un male, il calo demografico in Italia è un dato di fatto. Il sorpasso delle pensioni sulle buste paga e la costante diminuzione delle donne in età fertile non sono sogni ma solide realtà (cit.Immobildream). E ogni realtà va affrontata prima che giudicata. Senza facili moralismi (saremo tutti liberi di scegliere se vogliamo un figlio, no?), ma con la consapevolezza che qualcosa che non va, innegabilmente, c’è.  

 

Famiglia e carriera, facciamo un calcolo 

Gestire lavoro e famiglia è difficile. Per una generazione che conosce quasi solo il precariato, poi, rischia di diventare impossibile. Servono anni e anni per ottenere un lavoro stabile, ma la natura non aspetta. 

Intorno ai 45 anni una donna può andare in menopausa, il che significa che, per sicurezza, dovrebbe avere figli prima, se li desidera. Ma non è così facile.

Poniamo infatti che una ragazza decida di studiare all’università. Se si iscrive a 19 anni, finirà la triennale a 22 anni e la magistrale a 24. Se poi sceglie di seguire anche un master o un dottorato di ricerca, si arriva a 26 anni circa. Questo ipotizzando che tutto fili liscio. Se si verifica un ritardo anche minimo, si slitta a 27-28 anni. Poi la nostra studentessa dovrebbe finalmente inserirsi a tempo pieno nel mondo del lavoro, ma, soprattutto nel privato, non può essere già incinta a 30 anni, dopo solo un paio d’anni di lavoro, se vuole mettere a frutto i suoi studi e avanzare in carriera. Può sembrare crudele, ma ricordiamoci che in fase di assunzione non è raro sentirsi chiedere “hai in programma di avere figli a breve?”. La risposta che si aspettano, naturalmente, è “no”. Di conseguenza, restano circa dieci anni per raggiungere una posizione lavorativa appagante ed economicamente sostenibile. E dieci anni possono essere tanti come anche pochi. 

 

Famiglia e carriera, una scelta non più scontata

Alla luce dei calcoli fatti sopra, diventa più facile capire che cosa si intende quando si parla, ancora nel 2020, di scegliere tra famiglia e carriera. Ormai, però, l’esito della scelta non è più scontato e anche questo influisce sul calo demografico in Italia.

Un’indagine Istat riportata da inGenere, relativa al 2016, calcolava un 17% di donne childfree, che non includono la maternità nel loro progetto di vita. Senza figli per scelta, dunque. Questo fino a cinquant’anni fa sarebbe stato impensabile. L’immagine della donna-madre, custode del focolare domestico, perde terreno, pur opponendo una strenua resistenza al cambiar dei tempi. Al suo fianco cresce una nuova idea di donna: la donna in carriera che non rinuncia ai suoi progetti.

Calo demografico in Italia, si può invertire il trend?

Nell’immediato, probabilmente no. Al declino demografico dell’Italia contribuiscono molti fattori, sia di natura economica che socio-culturale, e non esiste una medicina dall’effetto istantaneo.

Non si può chiedere alle donne di tornare a mettere la famiglia al primo e unico posto, ma si potrebbero creare le condizioni adatte perché chi desidera dei figli non debba sacrificare le sue ambizioni. Per questo, però, servono tempo e consapevolezza: non sono venti euro in più nel bonus babysitter a fare la differenza. L’unica possibilità di invertire il trend, sul lungo periodo, è un ripensamento strutturale che agisca sul precariato, sui servizi per l’infanzia e sull’occupazione femminile. Poi si vedrà.

S.B.

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Università chiuse Bologna palazzo Malvezzi

Università chiuse, viaggio nella dotta (e spettrale) Bologna

30 giugno 2020. Università chiuse, mondo aperto. La fase attuale (2, 3…?) si potrebbe riassumere così. I runner, spauracchio dei giorni del lockdown, possono tornare in palestra, gli altri possono popolare di nuovo pub, ristoranti e centri benessere, ma non le università. Si può mangiare, tagliarsi (finalmente) i capelli da un parrucchiere, riaggiustarsi le sopracciglia da un estetista, comprarsi un vestito al centro commerciale. Studiare, però, no. O meglio, si può fare, ma ognuno a casa propria. Con le università chiuse, lo studio è diventato una questione privata, personale.

I pomeriggi in sala studio o in biblioteca con gli amici sono un lontano ricordo, quasi un miraggio. Poche università, tra cui La Sapienza di Roma, hanno previsto un graduale ritorno alla normalità già per le sessione estiva. Per la maggior parte degli studenti, invece, resta la modalità online. Esami online, lauree online. Università chiuse. Come se l’isolamento non fosse mai finito.

L’Università di Bologna ha rimandato tutto a settembre. Adesso, nella città universitaria per eccellenza, il clima è quasi surreale. Alle 9 e mezzo in piazza Maggiore si fermano in pochi e ancora meno si siedono a fare colazione davanti a un gigantesco cartellone pubblicitario di Barilla (e l’installazione per Patrick Zaky?). Via Zamboni è praticamente deserta. Potrebbe essere colpa del caldo, ma il punto è un altro: con l’università chiuse, i pochi studenti ancora in circolazione non sfidano l’afa della città dotta. In piazza Verdi, oggi, mancano addirittura i tossici. Senza i ragazzi seduti a terra con le birre davanti alle gambe, forse li noterebbero troppo, si sentirebbero osservati. Qualcuno, ai piani alti di Bologna, vari mesi fa voleva vietare agli studenti di sedersi nella piazza: “davanti al teatro comunale non è decoroso”. Immagino che adesso, lo stesso qualcuno, pagherebbe oro per riaverceli, seduti a gambe incrociate, a parlare di esami e affitti salati.

Le sedi storiche sono letteralmente sbarrate. Portoni, porte chiuse a chiave, serrande. Non si entra. In alcuni casi c’è un cartello con un triangolo giallo (disposizioni anti-covid!), in altri un foglio di carta che invita a suonare altrove o a chiamare un numero di telefono per accedere. E qui chi passa capisce che qualcosa non va. L’università è la casa degli studenti, ma da quando per tornare a casa uno deve suonare il campanello o scavalcare il muro del vicino?

Palazzo Poggi, poi, è quasi vuoto. Le lunghe file per un posto, che in sessioni di altri tempi si snodavano sul marciapiede e in strada, sono state spazzate via dal virus. Oggi si entra subito e si può scegliere anche la postazione (ti serve un computer?), gli studenti che ci sono dentro si contano sulle dita. Questa è una delle tre sale studio recentemente riaperte e nulla fa pensare che nelle altre due la situazione sia molto diversa. In giro si vede solo qualcuno che entra nelle copisterie per stampare dispense e tesi, perché i cfu non aspettano la fine della pandemia.

La settimana scorsa c’era una sala studio autogestita, all’aperto, in piazza Scaravilli. Non ce n’è traccia oggi e anche le proteste dei collettivi sembrano esaurite, per ora anestetizzate dal caldo. Il portone del rettorato, come tutti gli altri, è chiuso. L’estate bolognese, quest’anno, sembra particolarmente arida.

S.B.

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I Malavoglia

I Malavoglia, giovani e inquieti come ‘Ntoni

Eccoci al secondo appuntamento con la rubrica letteraria Il personaggio del mese! Il protagonista di giugno si chiama ‘Ntoni e arriva da I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga. Inquieto, a volte scansafatiche ma in fondo sognatore, ‘Ntoni è un ragazzo sui vent’anni che vorrebbe una vita diversa. Come molti di noi.

I Malavoglia e la filosofia delle dita della mano

‘Ntoni è il maggiore dei figli di Bastianazzo e Maruzza ‘la Longa’ e il primo dei suoi parenti, conosciuti ad Aci Trezza (Catania) come ‘i Malavoglia’, a lasciare la Sicilia per svolgere il servizio militare. Questo sottrae ‘Ntoni al mondo ancestrale del nonno Padron ‘Ntoni, un mondo fatto di proverbi, fatiche quotidiane e affetti familiari, e gliene mostra uno nuovo, lussuoso e spensierato.

Per il vecchio Padron ‘Ntoni la vita va avanti sempre uguale a se stessa e la famiglia funziona come una mano di cui ogni membro è un dito. La sua è un’etica di collaborazione – le dita devono sostenersi a vicenda – ma, volendo fare della filosofia spiccia, anche di determinismo. Ogni dito ha il suo ruolo e non lo può cambiare: il dito grosso deve fare da dito grosso, il dito piccolo da dito piccolo. Questo funziona con Mena e Alessi, fratelli minori di ‘Ntoni, ma non con il maggiore. ‘Ntoni vuole cercare un’alternativa.

Quando torna dal servizio militare, ‘Ntoni trova la famiglia che arranca per ripagare un grosso debito. Il suo futuro, quindi, gli appare improvvisamente scuro: lavorare come pescatore a giornata agli ordini dei compari (la barca de i Malavoglia, la Provvidenza, è andata distrutta), spaccandosi la schiena per pochi spiccioli.

In più, il naufragio della Provvidenza ha trascinato sul fondo del mare non solo un carico di lupini comprato da Padron ‘Ntoni, ma anche Bastianazzo. Dopo la morte del padre, dunque, ‘Ntoni dovrebbe ‘fare da dito grosso’ al suo posto, guidare i fratelli e aiutare il nonno a saldare il debito e a maritare Mena. Dovrebbe, in poche parole, assumersi la responsabilità della famiglia.

‘Ntoni e l’ascensore sociale

Da militare, però, ‘Ntoni ha conosciuto una realtà fatta di fazzoletti ricamati, uniformi e belle donne ed è proprio a questa che aspira.

Nella speranza di fare fortuna, lascia di nuovo i Malavoglia e Aci Trezza, ma è costretto a tornare con la coda tra le gambe. L’ascensore sociale che su cui ha cercato di salire gli ha staccato la corrente. Il romanzo non racconta che cosa causa il fallimento di ‘Ntoni, se l’incoscienza o la sfortuna, ma questo lo riporta al punto di partenza. E a 150 anni di distanza dalle sue disavventure, quell’ascensore sociale è ancora rotto: i figli ereditano nella maggior parte dei casi lo status socio-economico dei genitori (La Stampa, 16/12/2018).

‘Ntoni, però, proprio non ci sta. Si rassegna a restare ad Aci Trezza, anche se sente quest’ambiente troppo stretto e arretrato, ma non a fare la vita del nonno e del padre. Alla pesca preferisce l’ozio e il contrabbando, in modo da evitare almeno la fatica, e rifugge anche i momenti di unità familiare, perché ormai si sente un estraneo. La felicità semplice che il nonno e la sorella Mena trovano nella salatura delle acciughe o in un pomeriggio passato insieme a riparare le reti non fa più presa su di lui.

Nonno e nipote, scontro tra generazioni

Il saggio Padron ‘Ntoni fa di tutto per convincere il nipote ad accontentarsi – fai il mestiere che sai, se non arricchisci camperai – , ma i due parlano lingue troppo diverse. Se vivesse oggi, ‘Ntoni sarebbe un millenial di provincia che tenta il grande salto a Milano o a Roma e, non riuscendoci, torna di controvoglia all’ovile. Gli adulti gli dicono di sistemarsi, di trovare un lavoro stabile senza seguire progetti impossibili, ma lui non ce la fa. Non riesce ad accettare che quel mondo dorato, di comfort e opportunità, gli sia precluso e questo lo rende profondamente inquieto.

S.B.

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libri da leggere 2020

Libri da leggere 2020: 6 libri che non ho mai finito

Libri da leggere 2020 | Ogni lettore, divora-saghe o principiante che sia, ha i suoi “libri maledetti“, quelli che ha iniziato senza mai riuscire ad arrivare alla fine. Succede che a un certo punto diventa impossibile andare avanti, perché lo stile è noioso o perché i personaggi non ci rispecchiano. A volte, invece, non c’è nemmeno un vero motivo, semplicemente il libro viene abbandonato. Questi sono 6 libri che io non sono mai riuscita a finire e che forse potrei rivalutare tra i libri da leggere 2020. Quali sono i vostri i libri mai conclusi? (spoiler: ho un problema con i classici).

  • Cime tempestose di Emily Bronte. Troppo romantico per me. L’ho iniziato due volte ma con Catherine non c’è mai stata sintonia. Io e lei abbiamo un modo di amare diametralmente opposto, di conseguenza il suo struggimento non ha mai fatto presa sul mio cervello che si è fermato a una discreta antipatia per il suo amato Heathcliff, troppo geloso e troppo “oscuro”. Risultato migliore: 2/3 del libro letti al secondo tentativo.
  • Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello. L’unico libro di Pirandello che non ho finito. L’ho cominciato almeno tre volte, ma il copione è sempre lo stesso: lo apro, adoro le prime 25 pagine, ma progressivamente abbandono. Vitangelo Moscarda mi sembra un personaggio geniale con quel suo naso che pende verso destra, ma non riesco a seguire il filo delle sue mille domande esistenziali. Peccato. Risultato migliore (inglorioso): fermo a pagina 37.
  • Il processo di Franz Kafka. Strano, non saprei come altro definire questo libro. Non credo di averlo capito, oppure, più probabilmente, non ho avuto la pazienza di andare avanti per capire. Merita un secondo tentativo. Risultato: abbandonato a pagina 72.
  • Cuore di Edmondo De Amicis. Il libro sbagliato al momento sbagliato. Ho scoperto questo classico troppo tardi, quando studiavo per l’esame di maturità e il mondo di Enrico, con i maestri e i compagni della terza elementare, mi sembravano ormai lontanissimi. Risultato: lasciato a pagina 70.
  • Eragon di Christopher Paolini. Di nuovo un problema di tempismo: ho comprato questo libro quando la mia passione per il genere fantasy si stava ormai esaurendo e non ho mai superato il blocco psicologico che alcuni mattoni generano in me. Risultato? Ho letto così poche pagine che credo sia più dignitoso non indicare un numero.
  • I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Ebbene sì: sono tra le molte persone che non hanno mai superato il “trauma” scolastico di questo libro. Il segnalibro è rimasto esattamente dove era alla fine della seconda superiore, cioè intorno al capitolo 20. Troppe interrogazioni, troppe ore passate a sottolineare le figure retoriche. Breve storia non molto allegra.

S.B.

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castello dell'imperatore Prato

Setta di Prato, conoscere un “vampiro”

Prato, 9 giugno 2020. Riti satanici, abusi sessuali, minacce di Apocalisse. Sembra un libro di Stephen King, invece è la storia della setta di Prato.

La notizia, per noi pratesi, non era del tutto nuova. Già a febbraio si parlava di una setta satanica, che soggiogava ragazzi e ragazze e organizzava riti degni di un film horror dei più crudi. Si riuniva nei posti più impensabili, anche in un parco non lontano da casa mia, anche alla multisala.

Solo negli ultimi giorni, tuttavia, i giornali hanno diffuso il nome del capo della setta di Prato, il “vampiro“, come lui stesso si faceva chiamare. E qui cambia tutto, perché l’anonimo pervertito, di cui avevo visto solo una foto in maschera, assume le sembianze di un ragazzo che ho conosciuto alcuni anni fa.

Era, probabilmente, il 2016 e di mezzo c’era un progetto extrascolastico. Non ricordo più quale, ne facevo troppi. Un paio di incontri in un locale del centro, due chiacchiere davanti a un cappuccino. Forse non ci siamo detti più dei rispettivi nomi, ma lui è lì, immancabile, tra i miei amici di Facebook. Ricordo di aver pensato, quando l’ho conosciuto, che fosse poco loquace, uno di quelli che se la tirano troppo. Da qui a immaginarlo a capo di una setta satanica, però, ce ne corre. Eccome se ce ne corre.

Anche il mio ragazzo lo conosce, il nome me l’ha detto lui per primo. La conversazione è cominciata con un “non ci crederai, ma io il vampiro lo conosco” ed è finita a cercare una foto di una squadra di basket, in tenuta rossa e bianca, del 2012.

Quando i giornali intervistano i conoscenti dei serial killer e quelli, puntualmente, se ne escono con “era una brava persona” e “salutava sempre”, a volte è difficile crederci davvero. Eppure anche il vampiro della setta di Prato, quando era solo un giocatore di basket e un liceale, salutava sempre. E sorrideva. Se c’era già del marcio, non si vedeva. Non da fuori, almeno, non senza avvicinarsi troppo. Non esiste nessun mister Hyde che reca impressa nel suo aspetto la sua profonda depravazione. I mostri si nascondono dietro una giacca stirata.

S.B.

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App ‘Immuni’ icone: sessismo o polemica inutile?

App Immuni icone

App Immuni icone: sessismo o polemica inutile?

App Immuni icone | Dopo settimane di attese e discussioni su privacy, geolocalizzazione ed effettiva utilità di questa applicazione, ‘Immuni‘ è stata lanciata sul mercato. Si può scaricare in tutta Italia (e alcuni giornali parlano di 2 milioni di download già effettuati), anche se soltanto quattro regioni hanno iniziato il tracciamento dei dati e la sperimentazione completa.

‘Immuni’: donna-madre e uomo-lavoratore. La polemica

Appena il tempo di aprire l’app ed ecco che scatta subito la polemica: le icone sono sessiste. La donna ha un bambino in braccio, l’uomo lavora in smart-working al pc. Sembra la solita, vecchia storia: la donna a casa, l’uomo a lavoro. Da qui, il putiferio: accuse, scuse, baruffa sui social. Le icone vengono cambiate. Ora, nella schermata iniziale, i ruoli sono invertiti: la donna scrive al pc, l’uomo culla il bambino. Scegliere due banali personaggini stilizzati, senza bambini né computer, sarebbe stato senza dubbio più semplice e indolore. In alternativa, si potevano inserire fin da subito tutte e quattro le icone, in modo da rappresentare tutte le realtà e non solo quella, ormai stereotipata e (si spera) superata, della donna che resta a casa con i figli. La polemica, dunque, si poteva evitare con poco.

App Immuni icone |Perle dai social

App Immuni icone | Come sempre in questi casi, è nei commenti ai post che gli utenti danno il meglio (leggi: il peggio) di loro stessi. Commentiamo qualche commento (perdonate il gioco di parole) a un post di Freeda di 3 giorni fa (Attenzione: alta percentuale di sarcasmo).

  • M. scrive: “Se fosse stato l’uomo col bambino in mano e la mamma al pc avrei pensato che bravo papà e che mamma indaffarata. La mamma col bambino non è un segno di debolezza per le donne. Non è un’immagine il problema, è chi vede sessismo dove non c’è”. 1. Per tenere un bambino in mano, dovrebbe essere un folletto; 2. Chi ha detto che una mamma con un bambino è un segno di debolezza? 3.Un’immagine è un problema perché riflette un modo di pensare. Le immagini, come le parole, raccontano il nostro modo di vedere il mondo.; 4.Anche chi è indaffarato può essere una “brava mamma” o un “bravo papà”.
  • F. scrive: “Mi lascia molto amareggiata che l’immagine di una donna con in braccio un bambino per la nostra società sia uno scalino sotto a quella di una donna al lavoro. Questa inutile polemica credo sia indice di quanto scarsa sia la considerazione che spesso noi donne per prime abbiamo della maternità. Dovremmo piuttosto preoccuparci di avere pari diritti, pari dignità nella professione e maggiore tutela in caso di maternità, in maniera da non dover scegliere tra famiglia e lavoro”. 1. Cara F., quella pari dignità nella professione non la avrai mai se continuano a considerarti solo come madre. 2.Per secoli (se non millenni) ad essere considerata “uno scalino sotto” è stata la donna lavoratrice, possibile che appena le donne reclamano uno spazio diverso da quello casalingo si debba gridare al disconoscimento della maternità? 3.Questa polemica è inutile, ma non per i contenuti. Piuttosto perché poteva essere facilmente evitata.
  • E. scrive: “Davvero c’è qualcuno che si preoccupa o si offende per un neonato con la mamma e un uomo al computer… Come se fossero questi i problemi attuali… L’estremismo non c’entra con i diritti e l’uguaglianza e questo è estremismo pure”. 1. Sì, davvero, se sono decenni che le donne cercano di smarcarsi da quella vecchia spartizione dei ruoli; 2. Sai che cosa significa “estremismo“?
  • G. scrive: “Come donna non mi sento affatto offesa a questa immagine, anzi la trovo giusta, la natura ha dato alla donna un compito di grande responsabilità! la maternità è incarnata nel nostro essere sia biologicamente che naturalmente, solo una donna può averla! Mio libero pensiero”. 1.Spero di aver capito male. 2.La natura ha dato alla donna anche intelligenza, talento, creatività e un sacco di altre doti che meritano tanto quanto la scelta “biologica” della maternità; 3.”incarnata nel mio essere”, al momento, sento solo la cena di ieri sera.

N.B.: i commenti erano più sgrammaticati di così, ho aggiunto virgole e apostrofo per i miei cento lettori. Non ho trovato il classico “Solo diventare madre ti rende davvero completa”, ma probabilmente perché mi sono fermata ai primi commenti. Di sicuro, scendendo, l’avrei trovato.

S.B.

Leggi anche: Chadia Rodriquez,”Bella così” contro il body shaming

2 giugno 1946 corriere della sera

2 giugno 1946, l’Italia è una Repubblica…

2 giugno 1946, bentornata democrazia

Il 2 giugno 1946, dopo vent’anni di dittatura fascista e cinque di guerra mondiale, il popolo italiano tornò a votare. Elezioni libere e democratiche, senza olio di ricino e percosse fuori dai seggi, e per la prima volta a suffragio universale maschile e femminile.

Il voto chiamava gli elettori a una duplice scelta: la formazione della Assemblea Costituente e la decisione sulla forma del nuovo Stato italiano, in bilico tra monarchia e Repubblica. Oltre 12 milioni di italiani scelsero la Repubblica e dal tricolore cadde lo stemma dei Savoia.

L’Italia è una Repubblica…

Con il referendum del 2 giugno 1946 l’Italia è diventata una Repubblica, ma di che tipo?

  • Democratica. Dal greco demos , cioè “popolo”, e -crazia “potere”, una Repubblica democratica è uno Stato che riconosce che il potere è esercitato dal popolo (nei limiti stabiliti dalla Costituzione). Non tutte le Repubbliche, però, sono o sono state democratiche. La Roma repubblicana, ad esempio, era una Repubblica oligarchica (dal greco oligoi “pochi” e arché “governo”). Questo significa che le magistrature repubblicane, seppur elettive, erano di fatto appannaggio di un numero molto ristretto di famiglie dette gentes. Gli “uomini nuovi”, ovvero coloro che riuscivano ad arrivare alla massima carica, il consolato, senza provenire da una gens erano rarissimi (un nome su tutti: Marco Tullio Cicerone).
  • Parlamentare. Il massimo organo decisionale di una Repubblica parlamentare è, come si deduce dal nome, il Parlamento. Quello italiano è composto da due Camere (Senato e Camera dei deputati) e ha la facoltà di togliere la fiducia al governo in carica. Non è così in altre Repubbliche, ad esempio negli Stati Uniti, dove il presidente può governare anche se il Congresso è in maggioranza a lui ostile.
  • Fondata sul lavoro. Lo dice il primo articolo della Costituzione italiana. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. In fase di stesura della Costituzione, il PCI (Partito Comunista Italiano) avrebbe voluto la dicitura di “Repubblica di lavoratori”, la DC (Democrazia Cristiana) si opponeva. Dal compromesso tra le due anime della Costituente è nata la formulazione attuale. Potenzialmente problematica in un momento di forte crisi come quello attuale, ma suggestiva.
  • Indivisibile. La Repubblica italiana non si può separare. Autonomie sì, secessioni no.
  • Pacifica. L’Italia ripudia la guerra (art.11 della Costituzione).

2 giugno 1946, tutti alle urne

La doppia votazione del 2 giugno 1946 ha registrato un’affluenza altissima, con percentuali bulgare, che si è mantenuta per i successivi 30 anni. Poi qualcosa non ha più funzionato e si è inserito un cuneo tra il popolo e la politica. Un senso di disincanto e di disaffezione ha allontanato una percentuale sempre crescente di elettori e non si è più dissipato tanto che ad oggi si può dire senza temere di sbagliare che l’assenteismo è il primo partito italiano.

S.B.

Chadia Rodriguez "Bella così"

Chadia Rodriguez Bella così contro il body shaming

È uscita da pochi giorni l’ultima canzone della rapper Chadia Rodriguez “Bella così” feat. Federica Carta. Il pezzo è una denuncia delle molte pressioni sociali che le donne subiscono, ogni giorno, sul loro aspetto fisico. Troppo grasse, troppo magre, troppo appariscenti, troppo sciatte, troppo poco femminili… Sempre “troppo” o “troppo poco” in un’eterna rincorsa di un modello perfetto e irraggiungibile.

Chadia Rodriguez “Bella così”: le storie dietro la musica

La canzone di Chadia è un collage di storie vere che l’artista ha raccolto e condiviso sul suo account Instagram. Melissa ha subito una violenza all’età di 15 anni: il suo aggressore, di fronte a ripetuti rifiuti, le ha detto che non voleva stare con lui perché era grossa e complessata. Greta ha scelto di diventare donna nonostante lo stigma che ancora circonda i transessuali: su Instagram qualcuno le ha scritto che è una fortuna che suo padre sia morto, perché così non ha visto come è diventato suo figlio. Infine, Stefania, che ama i tatuaggi i piercing e le ragazze: sui social le domandano se sia un maschio o una femmina, le è capitato di essere allontanata dai locali; a volte si è chiesta se non fosse lei a essere sbagliata.

se a loro non vai bene infondo non è tua la colpa

perché tu sei bella così

(Chadia Rodriguez “Bella così” feat.Federica Carta)

Aspettative e body shaming , l’equilibrismo delle donne

Per essere sicure di non ricevere critiche più meno velate, se non vere e proprie offese, le donne dovrebbero riuscire a restare in equilibrio tra aspettative opposte. Quindi non essere né “secche” né “balene”(si chiama “grassofobia” l’atteggiamento, purtroppo diffuso, di repulsione nei confronti delle persone sovrappeso) ma oscillare solo nella fascia del peso forma per una questione non puramente salutistica ma estetica. Poi ancora non mostrarsi troppo disinibite ma neanche puritane, perché se “tr*ia” è un insulto anche “suora” non è un complimento. In più truccarsi bene, indossare i vestiti giusti, avere sempre i capelli in piega. In una parola: rasentare la perfezione, alimentare il culto dell’immagine del nostro secolo. A tutto questo la canzone di Chadia Rodriguez “Bella così” oppone un messaggio di rivalutazione delle imperfezioni e accettazione di sé: le donne sono belle così, anche con i capelli in disordine, le unghie non smaltate e senza vestiti firmati, perché “solo chi non ti ama ti vuole diversa“.

Piacere mi chiamo Donna

convivo col difetto e con la vergogna

se giro con i tacchi e la gonna corta

se sono troppo magra o troppo rotonda

mi hanno chiamato secca e balena

gridato in faccia e sussurrato alla schiena

mi hanno dato della suora, della troia, della scema

senza trucco, senza smalto e crema

(Chadia Rodriguez “Bella così” feat.Federica Carta)

S.B.

qui il video di Chadia Rodriquez “Bella così”

Leggi anche: Body shaming, oltre i capelli di Giovanna Botteri

homophobia is a choice - Giornata mondiale contro l'omofobia 2020

Giornata mondiale contro l’omofobia 2021: decalogo dell’omofobo

Giornata mondiale contro l’omofobia 2021: perché è oggi e perché serve

17 maggio, Giornata mondiale contro l’omofobia 2021. Esattamente trenta anni fa, il 17 maggio 1990, l’omosessualità smetteva di essere una malattia mentale. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per la prima volta la definiva “una variante naturale del comportamento umano“, quindi non un disturbo, non una tara. Una semplice variante.

Molta strada resta però da fare, se è vero che, come sostiene una ricerca di Gay Help Line ripresa da Repubblica, quasi un adolescente su tre non vorrebbe un compagno di banco omosessuale.

Omofobia: che cos’è?

Chiedendo a Google che cos’è l’omofobia, il motore di ricerca propone lo specchietto riassuntivo qui sotto.

omofobia /o·mo·fo·bì·a/ sostantivo femminile.

  • Timore ossessivo di scoprirsi omosessuale
  • Avversione nei confronti degli omosessuali

È curioso che il primo significato che Google riporta dipinga l’omofobo come un omosessuale represso. L’omofobia sarebbe quindi innanzitutto paura di se stesso, del simile. E “omo”, in greco antico, significa proprio “uguale, simile”. Ma l’omofobia è anche paura dell’altro, dell’omosessuale o del tansessuale che esce dallo schema, tradizionale e rassicurante, della relazione uomo-donna. Ciò che è alternativo corrode le certezze e la paura genera odio.

Il decalogo dell’omofobo

La Giornata mondiale contro l’omofobia 2021 ha l’obiettivo di sensibilizzare contro l’omofobia, nella speranza di promuovere una cultura libera da pregiudizi. E basta aprire le orecchie o scorrere le bacheche dei social network per sentire o leggere frasi che cominciano con “non sono omofobo ma…” e terminano tra insulti e cliché triti e ritriti. Come quando qualcuno inizia con “Senza offesa ma…”, la stilettata è garantita. Questi che seguono sono i miei “non sono omofobo ma…”, quello che ho letto o sentito, una sorta di decalogo dell’omofobo.

  1. Non sono omofobo ma vedere due uomini che si baciano mi fa schifo
  2. Non sono omofobo ma chi è l’uomo in una coppia di lesbiche?
  3. Non sono omofobo ma gli omosessuali non dovrebbero tenersi per mano in pubblico
  4. Non sono omofobo ma un gay deve aver avuto un trauma che lo ha reso così
  5. Non sono omofobo ma l’omosessualità è contro natura
  6. Non sono omofobo ma due uomini non possono crescere un bambino*
  7. Non sono omofobo ma le lesbiche non sono femminili come le vere donne
  8. Non sono omofobo ma i trans sembrano fenomeni da baraccone
  9. Non sono omofobo ma esistono solo uomini e donne
  10. Non sono omofobo ma i gay pride sono solo carnevalate per attirare l’attenzione

*non ci sono, ad oggi, evidenze scientifiche che dimostrano che un bambino, crescendo con genitori dello stesso sesso, possa rimanere seriamente danneggiato. Una ricerca condotta dall’Università La Sapienza mostrerebbe come l’unico fattore di sofferenza per questi bambini sia lo stigma sociale che avvertono sulla loro famiglia. L’avversione nei confronti delle famiglie omogenitoriali nasce prevalentemente da fattori di ordine religioso e più genericamente culturale.

S.B.

body shaming, "love the body you have"

Body shaming, oltre i capelli di Giovanna Botteri

Il caso Botteri-Striscia la Notizia: è body shaming?

Un servizio di Striscia la Notizia è stato accusato di body shaming. Il motivo? Ironizzava, in modo non molto riuscito, sull’aspetto di Giovanna Botteri, giornalista Rai inviata a Pechino. Nel mirino gli outfit poco originali e i capelli non troppo curati della giornalista. Tecnicamente, il body shaming è questo:

body shaming (body-shaming) s. m. inv. Il fatto di deridere qualcuno per il suo aspetto fisico. ♦ Treccani online

Troppo grasso, troppo magro, troppo basso, troppa cellulite, troppe smagliature, troppo trasandato…

Il body shaming è un effetto collaterale della nostra società dell’immagine: tutto ciò che non si avvicina al modello proposto (imposto) dalla televisione e poi amplificato dai social è oggetto di biasimo. Come una donna che non è truccata e non sembra appena uscita dal parrucchiere.

A Striscia si può concedere il beneficio del dubbio – la conclusione in studio sembra voler ironizzare più che deridere la collega – ma in ogni caso il suo servizio è solo la punta di un iceberg.

Donne in tv: l’Italia ha la “sindrome della velina”

Il problema viene da lontano e Laura Boldrini lo aveva già individuato nel 2013, quando chiese apertamente di rivedere il ruolo della donna in tv perché «solo il 2% esprime pareri, parla. Il resto è muto, a volte svestito». In pratica, un esercito di veline.

Ma il problema non sono nemmeno le veline, non in sé almeno. Il problema è la differenza tra uomini e donne: agli uomini non sarebbe mai chiesto di portare una busta in boxer, né di ballare in prima serata in mutande per poi sedersi in silenzio su un bancone. Gli uomini stanno sul palco in giacca e cravatta, professionali, e presentano. Le donne danzano seminude. Se i ruoli si invertono, si tratta quasi di eccezioni: l’unico uomo che è costantemente seminudo sullo schermo è il Bonus di Avanti un altro!

Certo, le conduttrici non sono semi-svestite. Michelle Hunziker, ad esempio, mentre commentava il servizio sulla collega Botteri, era ineccepibilmente vestita. Altre donne, come Barbara Palombelli e Lilli Gruber, guidano programmi di attualità, uscendo dal classico schema donne-gossip e uomini-politica, e questo è un passo avanti, ma non basta. Sono ancora troppo poche le donne che in tv appaiono come professioniste dell’informazione.

Botteri-Striscia: la risposta della giornalista

Dopo il servizio di Striscia, mandato in onda il 28 aprile, Giovanna Botteri ha risposto alle critiche con una lettera aperta pubblicata dal sindacato dei giornalisti Rai.

Mi piacerebbe che l’intera vicenda, prescindendo completamente da me, potesse essere un momento di discussione vera, permettetemi, anche aggressiva, sul rapporto con l’immagine che le giornaliste, quelle televisive soprattutto, hanno o dovrebbero avere secondo non si sa bene chi. Qui a Pechino sono sintonizzata sulla Bbc, considerata una delle migliori e più affidabili televisioni del mondo. Le sue giornaliste sono giovani e vecchie, bianche, marroni, gialle e nere. Belle e brutte, magre o ciccione. Con le rughe, culi, nasi orecchie grossi. Ce n’è una che fa le previsioni senza una parte del braccio. E nessuno fiata, nessuno dice niente, a casa ascoltano semplicemente quello che dicono. Perché è l’unica cosa che conta, importa e ci si aspetta da una giornalista. A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo, minimo, come questo. Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere e far discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne ».

Giovanna Botteri ha centrato il problema: certi canoni superficiali e restrittivi, che ingabbiano molte donne e non solo le giornaliste, dovrebbero essere superati.

Striscia la Notizia ha respinto le accuse al mittente, sostenendo che il servizio voleva essere a favore della collega e contro gli haters che la criticavano sui social per il suo aspetto. Alcune testate, come TPI, hanno sposato la loro versione, ma, ripeto, non è questo il punto. Quel servizio è soltanto la punta di un iceberg che dovrebbe cominciare a squagliarsi.

S.B.

Leggi anche:

Giovanna Botteri, Striscia la Notizia e gli attacchi: la replica (da leggere) della giornalista(Vanity Fair)

Revenge porn su Telegram? E’un problema di cultura

La gabbianella e il gatto su Wikipedia

La gabbianella e il gatto, una storia di amore e diversità

Luis Sepúlveda è morto la settimana scorsa, ucciso da quel Coronavirus che, dopotutto, non è “solo influenza”. Oggi è la Giornata mondiale del libro, io volevo raccontare una storia e ho scelto la sua più famosa. Protagonisti sono Fifì e Zorba, la gabbianella e il gatto che le insegnò a volare.

La gabbianella e il gatto: una buffa famiglia oltre i pregiudizi

Il gatto Zorba è, a tutti gli effetti, un padre adottivo e single. Per puro caso si trova a soccorrere una gabbiana ferita a morte e accetta di covare il suo uovo, crescere il pulcino e insegnargli a volare. Ma nessun altro gatto, ovviamente, cova un uovo. Così le assenze di Zorba e il suo comportamento insolito suscitano l’ilarità dei gatti (e dei perfidi topi). Questo però non impedisce a Zorba di far schiudere l’uovo e di accudire la piccola gabbiana, chiamata Fifì (Fortunata), insieme ai suoi amici Colonnello, Segretario, Diderot e Pallino. I sei insieme formano una buffa ma affiata famiglia allargata.

Ti vogliamo bene ancora di più perché sei diversa da noi (Zorba a Fifì)

Pallino e Fifì: « Io sono un gatto!»

Per Fifì, abituata a chiamare “mamma” Zorba e a vivere in mezzo ai gatti, è naturale pensare di essere uno di loro. L’appartenenza a una comunità però è qualcosa di complesso, che si basa sul soddisfacimento di una serie di criteri convenzionali che distinguono un gruppo dagli altri. In pratica, per essere considerata da tutti e senza ombra di dubbio un gatto, Fifì dovrebbe avere baffi, artigli e coda. Ma non ce li ha, come le fa notare Pallino durante una lite.

A legare Fifì ai gatti è invece un profondo affetto che la rende effettivamente un membro del loro gruppo, anche se ciò risulta incomprensibile a chi, come i topi, li osserva dall’esterno. Fifì però resta anche un gabbiano e come tale vuole imparare a volare, è nella sua natura. In sintesi Fifì è, come le dice Zorba, il primo gatto che vola. È un gatto per scelta e un gabbiano per nascita. Se dovessimo cercare la morale della favola, potremmo dire qualcosa sul far esprimere la nostra natura senza lasciare che essa ci definisca al 100%. Rubacchiando le perle di saggezza di un altro personaggio letterario, «Non sono le nostre capacità che dimostrano chi siamo davvero, sono le nostre scelte » (Albus Silente, Harry Potter e la camera dei segreti).

Vola solo chi osa farlo (Zorba a Fifì)

La gabbianella e il gatto: il ruolo (negativo) dell’essere umano

I protagonisti della storia sono tutti animali, ma anche l’uomo fa qualche (ingloriosa) apparizione.

Fin dall’inizio l’essere umano sta sullo sfondo, non apertamente ostile come i topi, guidati dal malvagio Grande Topo, ma nemmeno di grande aiuto. È innanzitutto un errore umano – uno sversamento di petrolio in mare – a portare alla morte la madre di Fifì, “uccisa dalla pazzia degli uomini che un giorno finirà per distruggere il mondo”.

Gli uomini tornano poi alla fine della storia, quando i gatti hanno bisogno dell’aiuto di uno di loro per salire in cima a un campanile e permettere a Fifì di volare. Ma non possono certo parlare a un umano qualsiasi: molti sono spocchiosi e arroganti, non concepiscono nessuno al loro pari. Serve un essere umano particolare, che capisca che anche gli altri animali hanno un animo e allora la scelta cade, inevitabilmente, su un bambino. Gli adulti, che non assecondano più la fantasia e inquinano la loro stessa casa, non capirebbero.

S.B.

*citazioni prese dal libro o dal cartone tratto da Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di Luis Sepulveda.

Leggi anche: Revenge porn su tekegram?È un problema di cultura

revenge porn su Telegram

Revenge Porn su Telegram? È un problema di cultura

Revenge porn su Telegram: la denuncia di Wired

Era un venerdì di quarantena qualunque quando Wired.it ha denunciato « il più grande network italiano di revenge porn »: 21 canali, 43mila iscritti, 30mila messaggi al giorno. Una vastissima rete di revenge porn su Telegram aperta a tutti e piena di orrori. In una parola: nauseante. Tra chi chiedeva foto di dodicenni e chi offriva quelle delle ex fidanzate, come mostrano gli screenshot pubblicati da Wired, non si salva nessuno. Il caso è diventato virale sui social, ma il problema arriva da lontano e ha a che fare con la nostra cultura.

Boldrini: « in giro per l’Europa non è abituale usare donne seminude per vendere yogurt »

Era il 2013 quando Laura Boldrini, allora presidente della Camera, pronunciò un appello a rivedere la figura della donna. Era l’anno della polemica su Miss Italia, per la prima volta non trasmessa dalla Rai, e la deputata chiedeva che delle ragazze italiane fossero messi in risalto i talenti prima del décolleté. Chiedeva di scostarsi finalmente dallo stereotipo della donna “madre o prostituta”. Di allinearsi ad altri Paesi europei, dove “non è abituale usare una donna seminuda per vendere yogurt”.

A sette anni di distanza c’è ancora molto da migliorare perché sopravvive, resistente come l’erba cattiva, l’immagine della donna come oggetto di piacere sessuale. La pubblicità sotto è del febbraio 2019.

Resiste, in altre parole, una cultura maschilista che considera la donna come carne. Da guardare, usare ed esporre a discrezione dell’uomo. Questo è il terreno del femminicidio e del revenge porn.

Revenge porn, che cos’è?

Diffusione nella Rete di immagini sessualmente esplicite, senza il consenso del soggetto ritratto, che di solito è una donna, da parte di individui che intendono così denigrare l’ex partner (Treccani.it)

La logica è tanto elementare quanto disumana: la donna e le immagini del suo corpo sono una proprietà, si possono scambiare come figurine. Ce l’ho, manca. Questo succedeva sui canali di revenge porn su Telegram: i membri chiedevano foto in base alle loro preferenze (per età, minorenni comprese, o per città), per semplice perversione o per vendetta contro le ex fidanzate.

Una questione di disparità

Il revenge porn si nutre poi di una forte disparità tra i generi. Alcune immagini con protagonista un uomo, infatti, non scatenerebbero la pioggia di insulti che invece travolge le vittime donne. Perché il sesso, da sempre, è roba da uomini. Le donne, invece, camminano (vorrei poter dire “camminavano”) su un filo sottile tra l’essere “puttane” e l’essere “frigide”. Dovrebbero essere tutte equilibriste. Farlo sì, ma “normale” e con pudore. Se lo fai strano e ti filmano, poi è colpa tua.

E che la responsabilità sia addossata alla donna lo ha dimostrato la storia di una 40enne di Brescia. Assunta in uno studio, è stata licenziata nel febbraio scorso perché la diffusione di alcuni suoi video intimi avrebbe danneggiato l’attività. Oltre al danno anche la beffa.

Revenge porn, che cosa fare?

Dal 2019 il revenge porn è un reato. Le pene per i colpevoli variano dalla reclusione da 1 a 6 anni a multe da 5 mila a 15 mila euro (art 612-ter codice penale).

Le vittime di revenge porn su Telegram o su un altro canale devono quindi denunciare. L’avvocata Cathy La Torre ha diffuso attraverso il suo profilo Instagram un modello di esposto da usare se si riconoscono foto proprie o di conoscenti su Telegram.

Se siete coinvolte, denunciate. Non lasciate che la vergogna permetta ai responsabili di rimanere impuniti. Non possiamo più stare in silenzio.

S.B.

Leggi anche: l’articolo di Wired completo (qui)

quarantena coronavirus

Quarantena prolungata, ma il Coronavirus è democratico?

L’Italia è ormai entrata nella quarta settimana di quarantena. O almeno credo, perché dal divano del salotto il sabato non è molto diverso dal lunedì. Personalmente, riconosco solo la domenica perché in casa è, e resta, il pizza-day.

Con tutte queste restrizioni, avere un cane che ha bisogno di espletare i suoi bisogni corporali all’aperto diventa quasi una benedizione. Beh, io non ho un cane. Posso andare a fare la spesa, con una fila media di un’ora nel supermercato del mio quartiere, ma immagino che potrebbe comunque andare peggio. Anzi. Sicuramente a qualcuno andrà peggio. Il Coronavirus, infatti, non è mica tanto democratico.

O meglio, il contagio in fondo lo è. Ha beccato un amico del marito di una mia cugina di qualche grado esattamente come il principe Carlo. Pensate se, disgraziatamente, Carlo dovesse morire, a 70 anni superati e senza mai essere stato re: uno scherzo del destino dei più loschi. Si spera che il God britannico abbia un occhio di riguardo anche per il (quasi) king oltre che per l’inossidabile queen.

Poi ancora Dybala, Nicola Zingaretti, Boris Johnson, Piero Chiambretti, Tom Hanks. In questo caso si può dire che gli zeri del saldo del conto corrente non fanno la differenza. Il contagio dunque è democratico, ma la quarantena no.

Passare un mese in una villa con parco è praticamente una vacanza resa frustrante dall’obbligatorietà e dalla lunghezza. La casa di Francesco Facchinetti, ad esempio, spippolando su Google pare essere una villa immensa con annessa sala giochi completa. La noia e la claustrofobia lì dentro devono essere molto più facili da combattere. E anche la residenza di Fausto Brizzi, che sembra avere una sala cinematografica interna, deve essere un bel posticino in questi giorni.

Lo stesso mese in una casa popolare e in alcune periferie, invece, deve rasentare la reclusione. In tre, quattro o cinque in un numero infinitamente più piccolo di metri quadrati. Senza sala giochi, cinema, parco privato. Come passare la quarantena al Corviale di Roma, in un lungo Serpentone di chilometri di abbandono.

Poi ci siamo noi che viviamo in appartamenti senza infamia e senza lode, stiamo qui a metà. Certo, se avessi un giardino, anche piccolo piccolo, sarei più felice, ma almeno io ho una casa. Decine di migliaia di senzatetto no. Per loro sì che la quarantena è un ostacolo altissimo.  

S.B.

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Scuola chiuse tra “digital divide” e “family divide”

La peggiore puttanata di A.Giglioli

scuole chiuse

Scuole chiuse tra “digital divide” e “family divide”

Scuole chiuse, studenti a casa.

Il figlio del mio vicino di casa ha dieci anni. Sta finendo la quinta elementare e per lui scuole chiuse significa didattica online.

Qualche giorno fa era stata programmata una videochiamata di gruppo con le maestre e i compagni, ma in casa con lui c’erano solo i nonni. Uno dei due salì da noi a citofonare per chiedere se gentilmente potevo scendere ad aiutarlo. Loro non sapevano nemmeno che cos’è “questo Goglemet ” (altrimenti conosciuto come Google Meet).

Scesi. La classe del ragazzino è formata da una ventina di bambini ma dopo un’ora di tribolazioni, tra email perse e microfoni che non funzionavano, ne  mancavano ancora un paio. Davide che non aveva un computer e Mia che aveva un computer troppo vecchio. Al loro posto restarono due pallini colorati, con il bottone rosso di “offline”. Gli altri si salutarono, fecero caciara, corressero i compiti. A Mia e Davide le maestre avrebbero mandato solo un messaggio con le risposte giuste.

Scuole chiuse e didattica a distanza, ma chi non ha Internet?

In tempi di scuola online, non avere una connessione o un computer diventa un problema. Non l’unico, ma uno abbastanza rilevante.

Che qualcuno non abbia Internet, nell’Italia del 2020, può sembrare paradossale. Un accesso, almeno dal cellulare, sembriamo avercelo praticamente tutti. Eppure “praticamente tutti” non significa “tutti”. Infatti, un articolo del giornale La Stampa calcolava, nell’ottobre del 2018, un 21% di italiani che ancora non ha accesso al web. Questa percentuale è “gonfiata” da molti anziani, ma non si tratta solo di loro: si parla anche di un ragazzo su dieci. In una classe media, di 20 o 25 persone, circa due studenti. Davide e Mia.

Gli americani lo chiamano “digital divide“. Divario digitale. Ovvero la differenza tra chi ha accesso alla rete e chi no. Tra chi ha un device di ultima generazione e chi un vecchio computer fisso dell’era antidiluviana. In un’aula virtuale, tra chi è presente ogni giorno e chi solo quando è il suo turno di prendere il computer. Tra chi può collegarsi e vedere amici e insegnanti, e chi resta un rettangolo morto.

Non solo tecnologia: esiste anche un “family divide”?

Anche con le scuole chiuse i bambini dovrebbero seguire le lezioni e fare i compiti, ma non per tutti è così facile. E non è solo un problema di tecnologia.

Il figlio del vicino è quasi sempre solo in casa con i nonni. La madre ha una tabaccheria, che resta aperta anche in questi giorni di quarantena, il padre vive in un’altra città con la seconda moglie. E anche questo conta.

Giada, una delle sue compagne di classe, compariva invece nella videochiamata con la mamma accanto che le puliva la webcam. Si sentiva il babbo parlare nell’altra stanza, la mamma gli disse di mandare i compiti di Giada alla maestra, lui venne a prendere il libro. Non penso di dover essere io a dirvi che non è la stessa cosa.

Coronavirus e scuole chiuse, meno disuguaglianze?

In ogni classe ci sono delle disuguaglianze tra gli studenti. Dire il contrario è nel migliore dei casi ingenuo, nel peggiore ipocrita. Ci sono tra chi eccelle e chi arranca, tra chi fa educazione fisica sudando come un cammello in una t-shirt firmata e chi ha le scarpe di tela del mercato.

Il Coronavirus non ha annullato queste disuguaglianze, le ha semplicemente trasformate. Chi ha un buon pc c’è, chi non ce l’ha resta un pallino spento.

S.B.

Leggi anche: Coronavirus in Italia, diario di una Millenial {1}

Coronavirus in Italia

Coronavirus in Italia, diario di una Millenial

10 MARZO 2020. In un diario, di solito, all’inizio ci si presenta. Quindi mi chiamo Sara, ho 21 anni e questo è il mio blog. Di norma cerco di commentare quello che accade, e da alcune settimane questo è il Coronavirus in Italia.

Il Coronavirus in Italia, riflessioni sparse

Sono – almeno in parte – i miei compagni di università quelli che abbiamo visto correre alla stazione per scappare dalla vecchia zona rossa con gli ultimi treni diretti al sud. E sono – sempre in parte – i miei coetanei quelli paparazzati in massa sui Navigli in piena emergenza. Da ieri tutta l’Italia è zona protetta perché noi – gli italiani – non riusciamo a modificare volontariamente le nostre abitudini.

Zona protetta significa spostamenti ridotti e scuole chiuse, discoteche chiuse, locali chiusi dopo le 18. Fino al 3 aprile tutto ciò che riempie le giornate di noi Millenials è sospeso. Saremo costretti a rivoluzionare la nostra routine e in questo, lo abbiamo dimostrato, non siamo bravi.

Quando ci hanno chiesto, nelle settimane passate, di restare in casa non l’abbiamo fatto. Siamo andati al mare, in montagna, in piazza a fare aperitivo con gli amici. Abbiamo aspettato che arrivasse un divieto nazionale, perché le cose a cui non volevamo rinunciare erano troppe. Il timore di infettare genitori e nonni è arrivato a rallentatore, come una di quelle onde lunghe che finché sono lontane sembrano solo una banale increspatura. Gli appelli alla responsabilità c’erano, ma a qualcuno questo sembrava solo un brutto sogno. Uno scenario di un videogioco distopico che se chiudi il computer si dissolve. All’inizio al Coronavirus in Italia nessuno voleva crederci davvero.

Il nostro problema è che non siamo abituati al vuoto. Organizziamo – o meglio organizzavamo – le giornate con la precisione chirurgica di chi vuole imbottire quelle 24 ore fino a farle scoppiare. Prima che l’università chiudesse, la mia routine era fatta così: tirocinio fino alle 13, lezioni fino alle 17, altri impegni (immancabili) fino alle 19, ritrovo al pub alle 21,30. Poi il sabato sera nei locali, la domenica cinema o bowling o centro commerciale. Ora, tutto chiuso. Possiamo guardare la tv, leggere molti libri, continuare a studiare, ma il senso di vuoto rimane. Come se rallentare non fosse più parte del nostro DNA.

Ci viene in aiuto la tecnologia, innegabilmente. Senza le lezioni a distanza molti di noi rischierebbero di perdere l’anno accademico o scolastico, però avere come compagni di classe dei pallini colorati, con le iniziali di nomi e cognomi, fa un effetto strano. Manca qualcosa. Siamo connessi quasi da quando siamo nati, questa dovrebbe essere la nostra dimensione naturale, eppure non siamo contenti. Proprio ora che i genitori non ci criticherebbero se stessimo tutto il giorno al cellulare o al computer, ora che abbiamo una ragione valida per farlo, vogliamo uscire.

Sarà la connessione che va a pezzi e bocconi, l’audio che gracchia o il migliore amico che in videochiamata sembra pure più scemo del normale, ma è come se l’obbligo di sfruttare al massimo il nostro mondo virtuale ci avesse infine mostrato i suoi limiti. E anche cazzeggiare sui social non fa granché, se nessuno ha niente da condividere.

Il Coronavirus sta attaccando la logica stessa di una piattaforma come Instagram: è una grande vetrina e, come in un negozio, in vetrina si mette il vestito più bello. Se siamo tutti in casa, con il pigiamone della nonna e i calzini di babbo Natale a marzo inoltrato, non c’è molto che vogliamo mostrare. Alle quinta storia Netflix e copertina ne abbiamo abbastanza. Alcuni irriducibili si affidano ai repost, così la bacheca si riempie di natiche libere in costumi da bagno striminziti del 15 agosto. Gli altri osservano. Non ci sono esperienze fighe che possiamo fare e ostentare di aver fatto, è un colpo di spugna ai sogni di gloria di molti social addicted.

Per tre settimane dobbiamo accettare che il Coronavirus in Italia sta ribaltando un po’tutto. Che per adesso il modello vincente è quello che di solito risulta un po’sfigato: stare a casa sul divano, anche il sabato sera, a leggere un libro o giocare a Risiko. Finché l’emergenza non sarà finita siamo costretti a frenare. Non è nel DNA della nostra generazione, è come cercare di rallentare un Frecciarossa in corsa, ma è necessario. Il Coronavirus in Italia ci sta nascondendo il carburante ma solo così possiamo ripartire.

S.B.

8 marzo 2020

8 marzo 2020, donne oltre il soffitto di cristallo

8 marzo 2020. Oggi è la Giornata internazionale della donna, una festa che, francamente, non mi piace molto. Non mi piace perché, in un mondo davvero civile con piena uguaglianza tra i generi, non sarebbe più necessaria. E invece eccola, ogni anno, a ricordare che la strada è ancora lunga. Che le donne sono uccise in quanto tali (66 femminicidi in Italia nel 2019 e già 15 nel 2020, secondo i dati dell’Associazione In Quanto Donna), molestate, licenziate, sottopagate. La femminilità diventa giustificazione per atti violenti, attenzioni indesiderate e discriminazioni sul lavoro. Oggi sono tutti femministi, ma domani calerà il sipario e le donne torneranno a scontrarsi con un invisibile soffitto di cristallo.

8 marzo 2020, esiste ancora un “soffitto di cristallo”?

In sociologia l’espressione “soffitto di cristallo” indica l’impossibilità per le donne di superare un ostacolo invisibile dovuto a fattori esterni. In altre parole, una donna fatica a raggiungere posizioni di vertice (alte cariche politiche o ruoli dirigenziali delle aziende) perché a un certo punto sbatte contro un muro invisibile. Ma quali sono i mattoni di questo muro? Sicuramente le difficoltà a conciliare il lavoro con la famiglia, che in Italia poggia molto sulle spalle della donna, e alcuni pregiudizi duri a morire. Tra questi l’idea che le donne trovino la felicità innanzitutto nella maternità e che le posizioni di responsabilità siano più adatte agli uomini. Tutto ciò ha mostrato segni di miglioramento nel corso degli anni, ma oggi, 8 marzo 2020, il soffitto di cristallo esiste ancora. In Europa, infatti, appena il 35% dei ruoli manageriali è ricoperto da una donna. In Italia questa percentuale crolla poco sopra al 20%.

Soffitto o porta di cristallo?

Un articolo del Sole 24 Ore dello scorso ottobre fissa al 21% del totale i ruoli di alta dirigenza affidati alle donne. Al primo livello di occupazione, tuttavia, il gap risultava quasi azzerato. Quindi uomini e donne cominciano insieme la carriera, ma già al primo avanzamento le donne scendono al 38%. Per questo il Sole 24 Ore parla di una “porta di cristallo” prima che di un soffitto, perché le donne incontrano ostacoli fin dall’inizio. A tutto ciò si aggiunge una diffusa disparità salariale: le manager donne in Europa guadagnano in media 77 centesimi per ogni euro dei colleghi maschi (fonte: Corriere della sera, 24 luglio 2018).

Si può rompere il soffitto di cristallo? L’esempio di Hermione Granger e Jo March

Diverse ma accomunate dall’amore per i libri: Hermione Granger e Jo March hanno rotto il loro soffitto di cristallo. Come Samantha Cristoforetti, Christine Lagarde e altre che, nonostante gli ostacoli, ce l’hanno fatta anche nella vita reale.

Hermione Granger, l’eroina uscita dalla penna di J.K.Rowling che innumerevoli volte salva il mago Harry Potter da una fine atroce, è un concentrato di femminilità moderna. Più intelligente che bella, nonostante il fascino di Emma Watson che l’ha interpretata nei film della saga, capovolge lo stereotipo della donne civettuola e pettegola. Devota ai libri e impegnata socialmente con il C.R.E.P.A. (comitato per la liberazione degli elfi domestici da lei fondato), Hermione crede innanzitutto nello studio e nelle capacità intellettive. Questo la rende diversa dalle sue compagne di dormitorio, appassionate di astrologia e gossip, e a volte insicura, ma capace di grandi cose: in Harry Potter and the cursed child è Ministro della Magia. Donna e Nata Babbana (figli di genitori non maghi, i Nati Babbani sono spesso discriminati), Hermione è una sorta di Barack Obama del mondo fantastico di Harry Potter.

Jo March, seconda delle quattro sorelle March di Louisa May Alcott, è la ribelle della famiglia. Rifiuta di comportarsi “da signorina”, non vuole sposarsi e i suoi vestiti sono sempre bruciati o strappati. Oggi tutto questo fa sorridere, ma nell’Ottocento (e non solo) una “ragazza-maschiaccio” non era molto apprezzata. Infatti, in Piccole Donne tutti aspettano che Jo cambi, che cresca e mitighi le sue stranezze. Perché di questo si tratta. Stranezze. Jo invece si mantiene fedele a se stessa e lavorando sodo diventa una scrittrice e apre una scuola. Per una ragazza vissuta ipoteticamente 160 anni fa, davvero niente male.

Festa delle donne, dopo l’8 marzo 2020

Al di là delle nostre eroine letterarie, alle donne servono misure concrete. Asili accessibili a tutti, ricalcolo dei congedi di maternità e paternità, il cui confronto (5 mesi contro 10 giorni) è ridicolo, ad esempio. Senza provvedimenti seri, e una più generale opera di educazione alla parità, l’Italia rischia di perdersi migliaia di Hermione di Granger.

S.B.

freedom for Patrick Zaky

Patrick Zaky, non dimentichiamoci di lui [intervista]

L’Italia viaggia a scartamento ridotto per il Coronavirus e anche se gli italiani sembrano aver smesso di saccheggiare i supermercati e i mass media hanno ripiegato sulla cautela, inevitabilmente ci siamo persi qualcosa. Nei primi giorni dell’epidemia, infatti, i mezzi di informazione erano letteralmente monopolizzati dal virus e molte notizie sono passate in secondo piano. Così pochi sanno che una settimana fa c’è stato un terremoto in Calabria (magnitudo 4.4) e la condanna per stupro di Harvey Weinstein, che in un’altra situazione avrebbe tenuto occupati giornalisti e opinionisti per ore, è finita in coda. Poi c’è Patrick Zaky. Studente internazionale dell’Università di Bologna, è stato arrestato lo scorso 7 febbraio ed è attualmente in carcere in Egitto in attesa di udienza. I motivi del suo arresto non sono chiari, anche se alcuni giornali hanno parlato dell’attivismo di Patrick per la comunità LGBTQ+. A Bologna l’Alma Mater sta cercando di non far calare il silenzio sulla vicenda, ma con l’università chiusa per la seconda settimana consecutiva non è così semplice.

A fare il punto della situazione con me è Stefano Dilorenzo (Sinistra Universitaria), membro del Consiglio degli Studenti dell’Università di Bologna.

Ciao Stefano, ci sono novità su Patrick Zaky?

Continuiamo a monitorare la situazione attraverso i canali istituzionali. Purtroppo non ci sono grandi novità, se non quella appresa da Repubblica per cui i genitori hanno potuto vedere Patrick e portargli dei libri per studiare.

L’Italia in queste settimane sta rallentando a causa del Coronavirus e l’Università è chiusa, come state cercando di farvi sentire nonostante le restrizioni?

Abbiamo voluto aderire alla mobilitazione di Amnesty International, pubblicando un selfie sui social con la scritta “Freedom for Patrick“. Chiederemo all’Ateneo di Bologna di appendere lo striscione di Amnesty dal Rettorato ed eventualmente fuori da tutte le sedi centrali dei dipartimenti.

Dopo le mobilitazioni del mese scorso avete avuto risposte dalla Farnesina?

La Farnesina ha fatto sapere all’Università di Bologna che si sta interessando del caso, ma più di questo non abbiamo saputo.

E dall’Unione Europea?

Attraverso Primavera degli Studenti, la nostra associazione nazionale, siamo in contatto con Brando Benifei, parlamentare europeo e capogruppo della delegazione italiana del PSE, ma per ora non ci sono novità oltre quelle apprese dai principali media. Siamo felici delle parole pronunciate nelle scorse settimane dal presidente del parlamento europeo David Sassoli e ci auguriamo che possano presto convertirsi in un impegno concreto. (ndr.: Sassoli aveva chiesto che l’Egitto rilasciasse immediatamente Zaky)

Il 7 marzo Patrick affronterà una nuova udienza, vi sentite ottimisti sul suo esito?

Non possiamo perdere la speranza e ci auguriamo di poter tornare a condividere le aule con Patrick quanto prima. Nel frattempo, dobbiamo impedire che i riflettori su Patrick si spengano.

[AGGIORNAMENTO 7 marzo: la custodia cautelare per Patrick è stata rinnovata per altri 15 giorni]

Per mostrare la propria solidarietà a Patrick, l’Università di Bologna ha accostato al suo logo un nastro rosso. Accanto, un paio di occhiali e la scritta “for Zaky”. A questo si aggiungono le ultime dichiarazioni del rettore Francesco Ubertini che ha ribadito la volontà di mantenere alta l’attenzione e l’impegno fino a quando Patrick non potrà tornare a frequentare i suoi studi.

La vicenda di Patrick Zaky continua dunque ad avere molte zone d’ombra, ma quel che è certo è che nessuno vorrebbe un altro Giulio Regeni. La vicinanza tra i due casi, che si spera avranno un epilogo molto diverso, è stata tradotta in un abbraccio in un murales. Realizzato a Roma, vicino all’ambasciata Egiziana, è in realtà scomparso dopo pochi giorni. Evidentemente, come ha denunciato l’autrice Laika su Instagram, a qualcuno faceva paura.

S.B.

Joaquin Phoenix Joker

Joaquin Phoenix, la forza del Joker agli Oscar 2020

Joaquin Phoenix ha vinto l’Oscar come miglior attore protagonista per Joker. Meritato? Meritatissimo. Il Joker è un personaggio strambo e complesso, che nel film con Phoenix è molto di più del nemico storico di Batman.

Joaquin Phoenix è Joker: uomo e clown

Il terribile clown che terrorizza Gotham City è, a rigor di logica, un cattivo. Non si può infatti dire che Joker, assassino impenitente e a tratti sadico, non sia a tutti gli effetti un criminale. Tuttavia, il film con Joaquin Phoenix, campione d’incassi nel 2019, va a ricostruire l’uomo, Arthur Fleck, sotto il trucco del clown.

Arthur Fleck è un malato mentale. Frequenta una psichiatra, dovrebbe prendere dei farmaci mentre assiste suo malgrado la madre. Vorrebbe fare il comico, ma (quasi) tutti lo disprezzano. La sua vita procede quindi in equilibrio precario tra la malattia e le umiliazioni della vita quotidiana, finché questo equilibrio non si spezza.

Uccidere per Fleck diventa una rivincita. La reazione scellerata di un emarginato contro una casta di ricchi che lo hanno sempre deriso e di un figlio contro una madre che gli ha rovinato la vita, così nascono i primi delitti. Da qui in poi la transizione verso il Joker è inarrestabile.

Oltre il personaggio: il Joker come prodotto sociale

Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia?!(Joker prima di sparare allo showman Murray Franklin)

Arthur Fleck smette di andare dalla psichiatra (e poi di prendere gli psicofarmaci) perché il progetto di assistenza di cui beneficiava viene tagliato. Uccide tre rampolli nella metropolitana perché loro, come molti altri, lo deridono. Il Joker è dunque una responsabilità collettiva.

Joaquin Phoenix: “usare la nostra voce per i senza voce”

Arthur Fleck è uno che, nella sua Gotham City, non ha voce in capitolo. Come molti altri poveri o malati, non conta niente. E proprio a tutti coloro che non hanno voce Joaquin Phoenix ha dedicato parte del suo discorso alla cerimonia degli Oscar (qui il discorso completo).Penso che il dono più grande che (il cinema, ndr) ha dato a me e a molti di noi sia l’opportunità di usare la nostra voce per i senza voce

Phoenix riconosce poi di aver sbagliato molto – sono stato una canaglia per tutta la mia vita, sono stato egoista – ma di aver avuto una seconda chance. Non c’è redenzione, invece, per il Joker.

Arthur Fleck prende la via del crimine, ma il sorriso insanguinato di Joaquin Phoenix, che chi ha visto il film non dimenticherà tanto presto, racconta una storia diversa dal solito. Mostra un Joker profondamente umano, frutto di una vita di abusi e della cattiveria di molti. Riesce a far dimenticare per un paio d’ore che, nella normalità, Batman è il buono e Joker il cattivo.

S.B.

Sanremo 2020

Achille Lauro al Festival di Sanremo 2020, genio o osceno?

L’uomo delle polemiche doveva essere Junior Cally, accusato di misoginia prima ancora dell’inizio della gara, e invece Achille Lauro al Festival di Sanremo 2020 ha spiazzato tutti con i suoi look.

I vestiti di Achille Lauro al Festival di Sanremo 2020

San Francesco, Ziggy Stardust, la marchesa Casati Stampa e infine Elisabetta I d’Inghilterra. Quattro serate, quattro personaggi impersonati con trucco e parrucco a dir poco appariscenti. Una provocazione che ha avuto i suoi effetti, visto che Me ne frego è tra le canzoni più ascoltate in rete, e che ha diviso i fan del festival. Basta infatti scorrere i commenti sotto qualsiasi post sul rapper per trovare sia gli entusiasti che gli sconvolti. Si va da “fantastico, mito” a “disastro, pagliacciata, vergognoso!”. In aggiunta ho letto anche un “avete fatto un festival porno”. In mezzo ci sono poi quelli che fanno notare che, in fondo, Achille Lauro non è più provocatorio di Renato Zero vent’anni fa.

Oltre il look: “per essere umani serve essere liberi ”

Achille Lauro non è certamente il primo cantante stravagante nella storia della musica. Non è nemmeno il primo che si traveste o si trucca. Questo però non gli toglie il merito di aver osato follemente e di aver sfidato ogni convenzione. Sul palco dell’Ariston, con la crème de la crème della stampa e della televisione in platea, si è presentato mezzo nudo e poi addirittura vestito da donna. Se non l’avessimo visto, sarebbe difficile crederci.

Il Festival di Sanremo è un po’un salotto della “buona musica”, una sorta di tempio sacro, pieno di trine e smoking, dove spesso dominano perbenismo e canzonette d’amore. Con le sue performance Achille Lauro voleva stupire (e c’è riuscito), ma probabilmente voleva fare anche di più: rompere un sistema, sfidare anche i ruoli di genere.

Inevitabilmente, non poteva piacere a tutti. Il senatore leghista Simone Pillon, ultra-conservatore, ad esempio, ha ironizzato commentando che Qualcosa dev’essere andato storto negli ultimi 30 anni. Sotto queste parole, una foto di Achille Lauro.

Proprio il rapper ha spiegato in una lettera, pubblicata da Vanity Fair, che alla base del suo percorso c’è una precisa filosofia di vita: La condizione essenziale per essere umani è essere liberi.

Oltre il look: al di là dei ruoli di genere

Lo schema binario che per secoli ha separato i generi è innegabilmente rassicurante, per questo a molti piace ancora. Blu per il bambino, rosa per la bambina. La chiave inglese da meccanico per il ragazzino, la trousse dei trucchi per la ragazzina. Non si può sbagliare. E ancora la tazza con la scritta “bomber” per lui, la tazza “velina” per lei. Tutto è bianco o nero, non ci sono dubbi. Achille Lauro ha mischiato tutti i colori della tavolozza davanti a milioni di italiani e, ciliegina sulla torta, prima di andarsene ha baciato il suo batterista Boss Doms. Non male per essere un concorrente di un programma alla sua 70esima edizione.

Alle polemiche nate proprio dal bacio con Boss Doms ha risposto la moglie del musicista, Valentina Pegorer:

Per farla breve, Achille Lauro non sarà stato il primo (né l’ultimo) a cantare travestito e magari non diventerà il nuovo re della trasgressione, ma ha sollevato delle questioni. Me ne frego forse funziona meno di altre, ma ha un messaggio forte. Me ne frego, appunto. Farsi due domande sulla diversità e sulla fluidità dei generi è sempre meglio che azzuffarsi sulle gambe della tuta di Elettra Lamborghini.

S.B.

femminicidi, violenza sulle donne

Femminicidi, l’emergenza continua

Cinque femminicidi in una settimana. Quattro in sole 48 ore. Il mondo è concentrato sul Coronavirus e sulla Brexit, ma in questi giorni in Italia una terza emergenza si sta palesando di nuovo in tutta la sua brutalità.

Femminicidio: che cos’è?

Il termine “femminicidio” nasce dalle parole “omicidio” e “femmina“, e indica l’uccisione di una donna da parte di un uomo solo in quanto tale(Femicide: the politics of woman killing, Diana Russell). Ammazzata perché donna, quindi. Tutte le giustificazioni che i giornali a volte riconoscono al colpevole – difficoltà economiche, crisi di coppia, depressione – sono appunto solo giustificazioni. Elementi che fanno scattare la violenza, ma che non ne costituiscono la causa più profonda. Il femminicidio è un drammatico strascico del vecchio sistema patriarcale che considerava le donne come oggetti che, per loro natura, possono essere cambiati o soppressi se non danno più piacere.

Femminicidio. Uccisione o violenza compiuta nei confronti di una donna , spec. quando il fatto di essere donna costituisce l’elemento scatenante dell’azione criminosa
(Zingarelli 2016)

Un male dalle radici profonde

Il femminicidio non è una novità del nuovo millennio, ma ha radici tanto profonde da arrivare fino alle origini della nostra civiltà.

Alcuni femminicidi, infatti, sono documentati già nell’antica Roma e anche se è difficile stabilire quale sia il più antico di tutti, la tragica fine di Sabina è certo in lizza per questo triste primato.

Lo scenario è quello della Roma dei sette re (VII secolo a.C.): una città nata da poco, che nel Lazio contende il primato alla vicina Alba Longa. E proprio per mettere fine a una guerra con Alba Longa si decide di affidarne l’esito a un duello tra tre Orazi, rappresentanti di Roma, e tre Curiazi, rappresentanti di Alba Longa.

I Curiazi riescono a uccidere due Orazi, ma il terzo con grande astuzia li trafigge a morte uno dopo l’altro. La vittoria dell’Orazio superstite segna il trionfo di Roma su Alba Longa, ma il successo è amaro per Sabina, sorella dell’Orazio ma anche moglie di uno dei Curiazi uccisi. La donna non riesce a trattenere il dolore e il fratello, brutalmente, la finisce con la spada. Non è un “classico” femminicidio con il marito nei panni dell’assassino, ma poco importa: è sempre una donna uccisa da un uomo in nome di un sistema che la subordina completamente al maschio.

Altri femminicidi risalenti all’epoca Romana sono stati ricostruiti da L’Espresso e tra questi c’è il caso di Prima Florenzia: gettata nel Tevere dal marito a nemmeno 17 anni.

Le parole del femminicidio

Scrivere di femminicidio è difficile. Si rischia di semplificare, di ricondurre tutto a “un folle gesto“, “uno scatto d’ira” o “un raptus di gelosia“. Una pazzia compiuta da uomini stanchi, disperati o addirittura troppo innamorati. In molti ricorderanno ancora il caso di Elisa Pomarelli e il suo assassino diventato un gigante buono sul Giornale.

Tutto questo però significa svalutare il fatto e, almeno in parte, giustificarlo. La lingua infatti non è neutra, ma è specchio del nostro modo di pensare. Per questo alcuni giornalisti hanno firmato un documento – il Manifesto di Venezia (2017) – che invita a non usare parole fuorvianti, come “amore”, “passione” o “raptus”, né espressioni che presentano le donne solo come oggetti del desiderio maschile.

Femminicidi vs Maschicidi

Mercoledì Libero proponeva questo titolo: Più maschicidi che femminicidi. 133 uomini uccisi in una anno, contro “solo” 128 donne. Eppure, lamentava il sottotitolo del quotidiano, non si assiste a nessuna mobilitazione per il sesso maschile. Pura polemica.

Il “maschicidio“, per poter essere equiparato al femminicidio, dovrebbe indicare l’uccisione di un uomo in quanto tale. Peccato però che questo non corrisponda al vero. Gli uomini non sono uccisi in prevalenza da loro partner o parenti. Non sono uccisi perché uomini. Questo vuol dire che non c’è, al momento, nessuna emergenza maschicidi.

Grafico Istat, Omicidi volontari e responsabili

S.B.

Auschwitz, Giornata della Memoria

Giornata della Memoria, il ricordo è in scadenza?

Oggi, 27 gennaio, è la Giornata della Memoria. Da qualche giorno alcuni canali televisivi mandano in onda in seconda serata documentari di approfondimento e tributi vari. Lodevole, ma domani? I palinsesti televisivi torneranno pieni di scintillanti talk show, presi d’assalto da soubrette in crisi e da politici sbruffoni. Oggi la Shoah e le belle parole, domani La pupa e il secchione e le scritte antisemite sui muri.

Paradossale, forse, ma reale.

Liliana Segre, la Giornata della Memoria tra indifferenza e ipocrisia

Liliana Segre è probabilmente la testimone della Shoah più conosciuta in Italia in questo momento. Senatrice a vita dal 2018 (qui la sua storia), ha recentemente promosso una proposta di legge (approvata ma con l’astensione del centrodestra) per l’istituzione di una commissione parlamentare contro il razzismo. Per lei, internata ad Auschwitz a 14 anni, il cancro più grave è l’indifferenza: quella di chi si è voltato dall’altra parte, quando i fascisti hanno iniziato a rastrellare gli ebrei, e di chi oggi ascolta i pochi testimoni rimasti con aria annoiata, come se si trattasse dell’ennesima riproposizione di una vicenda già archiviata. Come si potrebbe ascoltare, insomma, una lezioncina sugli antichi Romani. Storia vecchia, trita e ritrita, passata.

L’indifferente è complice. Complice dei misfatti peggiori

(contributo di Liliana Segre per lo Zingarelli 2020)

Dalla Shoah, però, sono trascorsi meno di 80 anni. Un tempo minimo, se si considerano i duemila che separano il giorno corrente dalla nascita di Cristo, ma sufficiente per creare una frattura tra passato e presente. Vittime e carnefici stanno lentamente scomparendo e presto di loro rimarrà solo una memoria libresca. Niente più voci e volti a testimoniare l’orrore, ma solo parole scritte e qualche registrazione. Una memoria preziosissima, ma certo sempre più debole: di un libro non vedi il tatuaggio marchiato sul braccio né senti la voce che si spezza.

E se il legame con il passato si affievolisce, non basta una conferenza o un discorso di circostanza per risvegliare le coscienze.

Ogni anno, con la dolente routine ipocrita di chi concepisce il Giorno della Memoria come una data rituale, si chiama il sopravvissuto di turno a raccontare l’orrore alle scolaresche, si riproietta Schindler’s List o perfino La vita è bella, e la coscienza civile pare salva. Lo è davvero? No di certo.

(Le memoria rende liberi, Liliana Segre con Enrico Mentana, best BUR)

Antisemitismo del nuovo millennio

Appena qualche giorno fa a Mondovì (Cuneo) qualcuno ha imbrattato la casa di una donna sopravvissuta ai campi di concentramento con una scritta antisemita . «Juden hier», ovvero “qui abitano degli ebrei”, come se questa non fosse l’Italia del 2020 ma la Germania del 1935, dove marchiare le abitazioni degli ebrei era, purtroppo, normale. Una macchina del tempo davvero agghiacciante

E che l’antisemitismo non sia una malattia del passato lo confermano i dati dell’Osservatorio antisemitismo: 197 aggressioni razziali in Italia nel 2018. In Francia e in Germania va pure peggio e il ministro degli Esteri tedesco, in una dichiarazione rilasciata al Der Spiegel, ha ammesso che nel suo Paese c’è un antisemitismo risorgente.

S.B.

Festival di Sanremo 2021 teatro Ariston

Festival di Sanremo, Amadeus e quel passo indietro di troppo

Le parole di Amadeus sulle presentatrici del Festival di Sanremo

“Una ragazza molto bella” con “la capacità di stare vicino a un grande uomo stando un passo indietro”. Così Amadeus, conduttore della 70esima edizione del Festival di Sanremo, ha presentato nei giorni scorsi Francesca Sofia Novello, una delle donne che lo affiancheranno sul palco dell’Ariston. In pratica, una bella ragazza con un fidanzato importante (Valentino Rossi, per inciso).

Le parole di Amadeus hanno scatenato un vero polverone sul web, dove la manifestazione di dissenso di Imen Boulahrajane, influencer da 250mila follower su Instagram, ha raccolto più di 1 milione di visualizzazioni in dodici ore. Il senso della sua iniziativa è semplice: boicottare il Festival di Sanremo, evitando di guardarlo, perché propone un modello di donna quantomeno anacronistico. E in effetti l’idea di una “donna-regista”, che agisce nell’ombra lasciando la scena al suo compagno, non è esattamente recente.

“Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”

Questa frase è attribuita alla scrittrice inglese Virginia Woolf (1882-1941), ma esprime un concetto vecchio almeno quanto l’Impero Romano.

Era il 41 d.C. quando l’imperatore Claudio salì al trono. I libri di storia lo descrivono come un uomo debole e pavido, più studioso che condottiero. Molti dicono che su tutto il suo principato (e probabilmente pure sulla sua morte) si allungò l’ombra della moglie Agrippina.

Astuta e ambiziosa, Agrippina non poteva diventare imperatrice. Perché era una donna, ovviamente, e l’Impero Romano era rigidamente patriarcale. Il modello orientale di Cleopatra, regina d’Egitto, era sembrato un abominio. No, niente donne al potere a Roma. Così Agrippina fu costretta a restare sempre un passo indietro. Un passo forse molto piccolo, soprattutto quando diventò reggente del giovane figlio Nerone, ma indispensabile.

Per la stragrande maggioranza delle altre donne, anche mogli e madri di imperatori, la distanza fu molto più grande. Basti pensare, ad esempio, a Livia: moglie fidata del primo imperatore Augusto, molti tendono a dimenticarsi della sua esistenza.

“Sempre un passo indietro, ma sempre insieme”

Quasi duemila anni sono passati dalla morte di Claudio e Agrippina, eppure esistono ancora coppie in cui uno dei due sta un passo indietro. Non di rado è la donna a ritirarsi nell’ombra e la sua capacità di non rubare la scena al compagno resta una dote gradita a molti. Ad esempio, l’ex first lady Michelle Obama è stata molto apprezzata dai tabloid, durante gli 8 anni della presidenza Obama, per la sua presenza discreta a fianco del marito. Una figura rassicurante, a tratti materna, che piaceva perché supportava, consigliava e contribuiva senza entrare a gamba tesa. Solo quando il secondo (e ultimo, per legge) mandato di Obama è finito, qualcuno ha ventilato che Michelle potesse mettersi in gioco in prima persona.

Tuttavia, non sempre il famoso passo indietro ricade sulla figura femminile. Nel novembre scorso, infatti, Io Donna ha ricapitolato il lungo matrimonio della regina Elisabetta con il principe Filippo, sempre un passo indietro ma sempre insieme. Strano destino, per un uomo, quello del principe Filippo: in quanto principe consorte, ha dovuto lasciare la carriera navale e trascorrere tutti questi anni all’ombra della moglie. È lei ad essere il capo dello Stato e della famiglia.

Tra l’altro, proprio la famiglia reale inglese è stata scossa negli ultimi giorni dal terremoto Megxit: Meghan Markle e il principe Harry hanno deciso di lasciare Buckingham Palace. La loro scelta ha fatto tanto scalpore perché è assolutamente anticonvenzionale (a chi fregherebbe, altrimenti, dei problemi familiari dei Windsor?) proprio come la loro coppia. Una coppia “alla pari”: chi sta “un passo indietro” tra il principe cadetto e l’attrice americana? Nessuno, perché Harry e Meghan, come molte coppie contemporanee, si pongono esattamente sullo stesso piano.

Sessismo al Festival di Sanremo, tutti contro Amadeus

Imen Boulahrajane non è stata l’unica a esprimersi contro le parole usate da Amadeus. Anche la scrittrice Michela Murgia non ha usato mezzi termini: è una porcata che fa schifo, ha tuonato ai microfoni di Radio Capital.E così anche Elisa Serafini, giornalista di TPI, che ha centrato la pecca principale della conferenza del Festival: non parla mai di merito. Bellezza a volontà, merito non pervenuto.

A sua discolpa Amadeus ha detto di essere stato frainteso.

S.B.

Il post di Imen:

brexit

Brexit, il Natale incerto di Londra e Edimburgo

Le elezioni del 12 dicembre hanno regalato agli inglesi un Christmas pudding particolarmente difficile da digerire. Boris Johnson ha vinto e con lui la Brexit che si farà entro il 31 gennaio, come ha garantito anche la regina Elisabetta. Tuttavia, la Brexit non ha ottenuto un vero plebiscito. Il Regno Unito è diviso e avrebbe bisogno di una guida, un po’come il vecchio Scrooge, protagonista di quel Canto di Natale (di C.Dickens) che molti rileggono (o riguardano) durante le vacanze natalizie.

Canto di Natale è la storia di un avaro che ottiene, grazie all’intercessione del socio morto, un’ultima possibilità. Scrooge riceverà la visita di tre spiriti (il fantasma dei Natali passati, il fantasma dei Natali presenti e il fantasma dei Natali futuri), poi dovrà decidere che cosa fare della sua vita. Ma cosa mostrerebbero, oggi, gli spiriti agli inglesi?

Il fantasma dei Natali passati: il rinvio della Brexit

Il giorno dell’addio della Gran Bretagna all’Unione Europea doveva essere il 29 marzo 2019, ma non è andata esattamente così. Un anno fa a Westminster Theresa May cercava un accordo che non avrebbe mai trovato. La prima bozza dell’Unione Europea, presentata a dicembre 2018, fu bocciata. Il Parlamento inglese s’impantanò sulla delicata questione del confine tra Irlanda e Irlanda del nord. Il nuovo accordo proposto da May a marzo non ha avuto una sorte migliore e la Gran Bretagna ha dovuto, volente o nolente, chiedere una proroga: divorzio spostato al 31 ottobre. Nel mezzo le dimissioni di May, il tentativo di Johnson di chiudere il Parlamento per cinque settimane, un po’di caos.

Il fantasma del Natale presente: le elezioni

Con 365 seggi su 650 i conservatori hanno stravinto. Eppure, sommando i voti ottenuti dai principali partiti anti-Brexit (laburisti, verdi, liberali, partito nazionale scozzese) si arriva a un 50,4% che rispecchia un paese spaccato in due. Per la Brexit c’è il 45,6% di conservatori e Brexit Party(il 4% rimanente è andato a formazioni minori)

Volendo commentare con un proverbio, si può dire che l’unione fa (o avrebbe fatto) la forza. Se il fronte del remain avesse trovato un collante più forte, o un leader più deciso di Jeremy Corbin (labour), la partita sarebbe stata aperta. Con questi numeri, invece, Johnson ha una maggioranza molto ampia e la Brexit sembra inevitabile. Come ha confermato la regina Elisabetta II nel discorso di apertura del Parlamento, ci sarà un nuovo accordo entro il 31 gennaio.

Video di Global News

Il fantasma dei Natali futuri: Londra più lontana

Difficile prevedere cosa accadrà dopo la Brexit. Dal 31 gennaio 2020 la Gran Bretagna, formalmente, non farà più parte dell’Unione. Serviranno nuovi accordi commerciali, soluzioni per i tanti europei che vivono e lavorano nel Regno Unito e un’idea per il confine con l’Irlanda, che è e resta parte dell’Unione. E la Scozia? Gli scozzesi hanno votato in massa per i nazionalisti e la loro leader, Nicola Sturgeon, è stata categorica: Boris Johnson non ha alcun mandato per portare la Scozia fuori dall’Ue(fonte; Dagospia.com. Peccato però che proprio Johnson non abbia alcuna intenzione di concedere alla Scozia un nuovo referendum sull’indipendenza, dopo quello fallito nel 2014.

Nel futuro della Gran Bretagna e dell’Unione Europea ci sono molte ombre. Le certezze ad oggi sono poche e tra chi ipotizza un crollo della sterlina dopo la Brexit e chi invece crede che l’economia inglese migliorerà, il colpo più duro sarà forse fare il passaporto per vedere il Big Ben.

S.B.
Muro di Berlino

Muro di Berlino, il crollo di un mostro

Crollava oggi, 9 novembre, il muro di Berlino. Era il 1989 e la Germania come la conosciamo adesso non esisteva. C’era la Germania ovest (Repubblica Federale di Germania) e c’era la Germania est (Repubblica Democratica Tedesca). In mezzo, un muro.

Ezio Mauro, ex direttore di la Repubblica,è tornato indietro nel tempo e ha raccontato in tv e sulla carta quella divisione innaturale. Anime perdute: Cronache dal Muro di Berlino è il suo libro.

2 maggio 1945. Gli antefatti

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale la Germania sconfitta finì divisa in 4 settori controllati dai vincitori (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia). Negli anni successivi, però, i 4 settori di fatto si polarizzarono in due aree, un’area occidentale che rispondeva agli Stati Uniti e un’area orientale che rientrava nella compagine sovietica. La contrapposizione ideologica iniziava già qui, ma ci vollero 16 anni perché il confine diventasse un muro.

13 agosto 1961. Tutto in una notte

A decidere la costruzione del muro fu una telefonata tra il capo della Germania est e Kruscev, leader dell’Unione Sovietica. A Berlino mancavano il latte e il burro, non c’erano più verdure se non crauti e cetriolini sottolio, gli stipendi erano bloccati… La Germania est era al collasso, così Kruscev decise di blindarla. In cinque ore, di notte e in completa segretezza, fece costruire un primo confine di filo spinato. Nei giorni successivi lo scavalcarono circa 200 persone che avevano capito che non sarebbe stata una soluzione temporanea. Molti altri credettero invece che sarebbe stata una cosa passeggera, questione di settimane o al massimo mesi. E invece sono stati 28 anni.

L’improvviso innalzamento della barriera colse di sorpresa l’Occidente, che restò a guardare ammutolito. La sola voce di condanna, infatti, fu quella del sindaco di Berlino ovest.

1961-1989, 30 anni di Muro di Berlino

Il Muro era lungo 155 km, di cui 43 km che spaccavano in due Berlino. La separazione era totale e non teneva conto di niente e di nessuno: Rainer Eppelmann, oggi pastore protestante della chiesa dei samaritani, si ritrovò nella zona est insieme alla madre e ai fratelli, senza poter raggiungere il padre nella zona ovest. Lo stesso accadde a molte altre famiglie.

Scappare da est a ovest, dove la vita era economicamente (e non solo) migliore, era infinitamente complicato. Nei primi tempi alcune persone si gettarono dalle finestre delle case adiacenti al muro; qualcuno riuscì nell’impresa, altri morirono nella caduta. Successivamente le finestre furono murate, come anche le fermate della metropolitana della zona est.

Il Muro fu poi rinforzato e nella sua ultima versione si componeva di due barriere di cemento armato alte 3,60 metri, con più di 300 torrette di controllo e una zona cuscinetto detta “la striscia della morte” sorvegliata da oltre 5mila cani. Un mostro. Se anche i più abili (o fortunati) riuscivano a superare il primo muro, si trovavano intrappolati nella striscia della morte ed erano facilmente catturati o uccisi. In più, ovunque si allungavano i tentacoli della Stasi (Ministero per la Sicurezza di Stato) che attraverso le sue spie arrestava tutti i (possibili) dissidenti.

Chi rimase bloccato nella zona est, insomma, passò dalla dittatura nazista a quella comunista. Quasi come cadere dalla padella alla brace.

9 novembre 1989, il crollo del Muro di Berlino

Nemmeno un anno prima del crollo, nel gennaio del 1989, il presidente della Germania est Erich Honecker garantiva la durata del muro: Il Muro continuerà ad esistere tra 50 anni e anche 100 anni se le ragioni per cui è stato costruito non saranno rimosse. Invece a novembre dello stesso anno il muro crollò e con lui il comunismo sovietico.

Nel marzo del 1989 l’ultima “vittima del Muro”: un ventiseienne costruì una mongolfiera per raggiungere Berlino ovest, ma si schiantò al suolo. Dopo di lui ci furono solo proteste e persone che occuparono per giorni le ambasciate della Germania ovest. I manifestanti furono infine evacuati nell’ovest su treni speciali (i “treni della libertà“), formalmente “espulsi” dall’Unione Sovietica.

Arrivò così la sera del 9 novembre. Una conferenza stampa annunciò l’apertura dei checkpoint tra Berlino est e Berlino ovest. Un giornalista chiese da quando sarebbe entrato in vigore il provvedimento, la risposta fu a quanto ne so, da subito.

Il Muro di Berlino 30 anni dopo

Con il Muro di Berlino non sono certo crollati tutti i muri fisici o mentali del mondo. Altri sono sopravvissuti o sono stati eretti.

Ma qual è la vera funzione di un muro? Alessandro Baricco scriveva nel 2006, a proposito della Grande Muraglia cinese, che essa era uno strumento militare inefficiente (i popoli della steppa la violavano di continuo), ma un meccanismo mentale infallibile. Infatti, un muro compatta l’identità di quelli che sono dentro creando un’opposizione con quelli fuori. Un muro è sempre un “noi contro loro”. Capitalisti contro comunisti, nel caso del Muro di Berlino. Statunitensi contro Messicani, per il muro voluto dal presidente Donald Trump. Muro che, tra l’altro, funziona esattamente come la Muraglia analizzata da Baricco: militarmente fa acqua da tutte le parti (recentemente alcuni narcos l’hanno assaltato con delle seghe elettriche) ma concettualmente è un confine perfetto che dice (o vorrebbe dire) “America first“.

Poi c’è il muro di Viktor Orban, che blocca la via balcanica impedendo ai migranti di raggiungere l’Ungheria. Così il muro passa da simbolo della Guerra Fredda a bandiera dei nuovi sovranismi. Se l’Italia non fosse circondata per tre lati su quattro dal mare, chissà, forse ormai avremmo anche noi il nostro muro da aggiungere ai 40mila km di barriere che, secondo una ricerca di Elisabeth Vallet (Università di Montreal) riportata da TPI, ci sono ad oggi nel mondo.

S.B.

Isabel Allende

Isabel Allende, il Cile da Pinochet a oggi

Isabel Allende è probabilmente la più nota scrittrice sudamericana e qualche giorno fa, a Milano, ha presentato il suo ultimo libro. Lungo petalo di mare è la storia di alcuni esuli che abbandonano la Spagna dopo la vittoria di Francisco Franco nella guerra civile (1936-1939) e l’inizio della dittatura. La destinazione: il Cile.

Isabel Allende e il Cile di Pinochet

Isabel Allende nasce a Lima (Perù) il 2 agosto 1942, ma la sua casa diventa presto il Cile, paese d’origine del padre Tomas Allende, cugino di quel presidente Salvador Allende ucciso nel 1973 dopo il colpo di Stato del generale Pinochet.

Pinochet porta la dittatura militare e il Cile per più di 15 anni non è più uno Stato libero. Coprifuoco, ferrei controlli della polizia, niente libertà di stampa, di pensiero e di espressione. Niente libertà in assoluto. Quelli che si oppongono al regime sono neutralizzati, scompaiono nel nulla. Desaparecidos.

Isabel deve fuggire, prima in Venezuela e poi negli Stati Uniti. Scappare significa lasciare gli affetti e anche il lavoro di giornalista, così la Allende si reinventa come scrittrice.

D’amore e ombra, l’esilio come protagonista

D’amore e ombra (1984) è il secondo romanzo di Isabel Allende. È meno noto del primo, La casa degli spiriti, ma racconta forse ancora meglio la dittatura.

La storia è quella di una famiglia il cui destino sembra essere segnato irrimediabilmente dall’esilio. Il professor Leal e sua moglie Hilda sono arrivati dalla Spagna, dopo la sconfitta dei repubblicani nella guerra civile contro i franchisti. Il professor Leal, fervente comunista e poi anarchico, ha fondato la sua nuova vita in Cile su una promessa singolare: non metterà più i calzini finché Franco non sarà morto. Trascorrono così decenni sereni e la coppia cresce tre figli, ma quando il professor Leal potrebbe finalmente rimettere i calzini (Franco muore nel 1975), è il Cile ad essere caduto sotto il giogo della dittatura. Così la promessa si proroga: il professor Leal non metterà i calzini finché anche il Cile non sarà libero e democratico.

I coniugi Leal potrebbero tornare in Spagna, ma gli anni passati in Cile li hanno radicati nella nuova patria. Nemmeno il suicidio del figlio maggiore li spinge alla fuga e, come se fosse un brutto scherzo del destino, alla fine è il minore, Francisco, a fuggire.

Francisco Leal e Irene Beltràn hanno pestato i piedi sbagliati. Lavorano per una rivista e indagando sul caso di una ragazzina scomparsa hanno fatto troppo clamore. La scelta, per loro come per i genitori di Francisco tanti anni prima, è tra la morte e l’esilio.

Era ogni giorno più difficile trovare notizie allettanti per la rivista. Sembrava che nulla di interessante accadesse nel paese e quando accadeva la censura ne impediva la pubblicazione.

Il Cile 35 anni dopo D’amore e ombra

Trentacinque anni sono passati dalla pubblicazione di D’amore e ombra. Isabel Allende, nel frattempo, ha scritto decine di altri libri, ma con l’ultimo ha ripreso le fila di quel secondo romanzo: tornano la Spagna, l’esilio, il Cile.

Lungo petalo di mare finisce dove D’amore e ombra inizia ed esce in un momento molto delicato per il Cile: proteste per il caro vita, scontri violenti, il coprifuoco come ai tempi di Pinochet, un Governo (pare) dimissionario.

Questa crisi non si risolve con i militari per strada, sono necessari cambiamenti profondi. […]La gente è arrabbiata per gli stipendi da fame e il costo della vita, che obbliga la stragrande maggioranza a vivere a credito o in povertà, mentre i ricchi vivono nella loro bolla, evitando le tasse e accumulando sempre di più. Questo inevitabilmente crea violenza e ad un certo punto esplode. Così hanno iniziato tutte le rivoluzioni.

Isabel Allende su Facebook, a proposito delle proteste in Cile (qui il post completo)

Anche per la Spagna non è un momento facile. In Catalogna si protesta per la condanna dei leader indipendentisti e a Madrid la salma di Franco è stata rimossa appena qualche giorno fa dalla tomba monumentale che la ospitava. È stata portata in un cimitero civile, decisamente meno sfarzoso, con l’obiettivo di evitare ogni celebrazione di quel franchismo che la Allende racconta e che, evidentemente, è ancora avvertito come un pericolo.

S.B.
Coming Out Day, piedi arcobaleno

Coming Out Day, la storia di Athos Fadigati

Il Coming Out Day

Ieri, 11 ottobre, è stato il Coming Out Day. Ormai abbiamo un giorno per tutto (il giorno del gatto, della Nutella, della pace interiore…) e tra le tante giornate di dubbia utilità il Coming Out Day ha almeno il merito di portare l’attenzione sulla comunità LGBT anche al di fuori del periodo dei Pride.

Certo è, però, che già l’esistenza di una giornata del genere è un po’una sconfitta. “Festeggiare” il coming out, infatti, significa vederlo ancora come qualcosa di particolare, da tutelare o incoraggiare. Il Coming Out Day ha lo stesso sapore della festa della donna, una giornata che può essere positiva ma che in un mondo davvero civile non servirebbe. Ricorda che essere gay non è sempre facile e se non lo è adesso, nel passato lo era ancora meno. Nel periodo fascista, ad esempio, era un vero inferno.

La storia di Athos Fadigati

Athos Fadigati è un personaggio inventato, protagonista de Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani, ma la sua storia potrebbe tranquillamente essere vera.

Fadigati è un uomo di mezza età, molto conosciuto nella Ferrara del 1936 per il suo studio medico, e porta degli strani occhiali d’oro. Tutti lo rispettano, finché qualcuno non nota qualcosa di strano nel suo stile di vita: non è sposato, eppure sarebbe un buon partito vista la sua professione, e di sera frequenta luoghi non raccomandabili. Passando di pettegolezzo in pettegolezzo, a Ferrara si comincia a pensare che sia gay.

All’inizio sono solo voci, ma quando Fadigati va in vacanza con un giovane amante, infrangendo tutte le regole non scritte della comunità perbenista e ipocrita di Ferrara, viene completamente emarginato.

Essere omosessuale e mostrarlo davanti a tutti senza mantenere più le apparenze, in piena epoca fascista, è troppo. Il modello è quello mussoliniano del macho eterosessuale, che compete nelle gare sportive del regime e frequenta i bordelli, non c’è spazio per altro. Fadigati, con i suoi occhiali strambi, il suo corpo tozzo e la sua incapacità di vedere che il giovane compagno lo sta in realtà usando, è per tutti ridicolo.

venivamo cercando su quel suo volto familiare le prove del suo vizio, del suo peccato.
Così ammette il narratore, e Fadigati, abbandonato e deriso da tutti, infine si suicida.

Verso il Coming Out Day

Ottanta anni ci separano dalla tragica fine di Athos Fadigati. Ad oggi, nei principali paesi europei, l’omosessualità non è un reato, non è considerata una malattia mentale e sono previste forme di matrimonio o unione civile per gay e lesbiche; in alcuni Stati anche l’adozione è permessa, ma non Italia (la legge Cirinnà del 2016 bocciò tra le polemiche la step child adoption, ovvero l’adozione dei figli del compagno/a). Quello che manca ora è rendere giornate come il Coming Out Day superflue. Quando una coppia omosessuale sarà per tutti (o quasi) semplicemente una coppia, non servirà più nessuna giornata del coming out.

S.B.